Terminate le Olimpiadi di Parigi, tutti hanno avuto modo di rivedere e ripensare, magari anche con l’aiuto delle coreografie di chiusura, il motto olimpico, “Citius, Altius, Fortius”. “Più veloce, più alto, più forte”, è la famosa formula voluta dal barone de Couberten nel primo congresso olimpico di Parigi del 1894. Quel motto composto in latino, come ci ricorda la sempre utile analisi grammaticale, da tre aggettivi comparativi neutri in funzione avverbiale, contiene un esplicito invito a superare i limiti. Contengono infatti il desiderio umano di superare costantemente se stessi, andando oltre i limiti, forzando le costrizioni del corpo e della materia, correndo i cento metri sotto i dieci secondi, sfidando la forza di gravità saltando oltre i due metri e 38. Quel motto olimpico sembra apparentemente anche in contrasto con gli intenti di questa rubrica la quale cerca costantemente di ricordarci invece, in funzione positiva, i limiti umani e naturali.
Intanto c’è da dire che quel motto non è stata un’invenzione di de Coubertin ma di un suo amico e sodale, un sacerdote, pedagogista ed educatore sportivo, ovvero padre Henri Didon, come ci ha ricordato opportunamente una grande studiosa della storia dello sport, Angela Teja in una recente pubblicazione (Padre Henri Didon. Un Domenicano alle radici dell’olimpismo, 2024). Il fatto che l’ispiratore sia stato un domenicano imbevuto di teologia tomistica getta una luce particolare su quel motto. Lo colora di un valore di perfezionamento umanistico e spirituale, lo slancio umano teso verso un Infinito che ha il nome di Dio. Quindi l’apparente arroganza si capovolge in una forma di umiltà. È il perfezionamento continuo della creatura umana che si rapporta con l’Altissimo, nella consapevolezza che nessuna pretesa di divinizzare l’essere umano è possibile. Proprio perché esiste Dio l’essere umano non è Dio. Né quel motto può essere inteso in maniera riduzionistica, in senso materialista e realista. L’essere umano come persona è infatti unità di copro, anima e spirito e il perfezionamento dovrebbe avvenire armonicamente in tutte e tre le dimensioni. Questo intendeva padre Didon. Anche se poi è stato secolarizzato fin quasi a significare il suo contrario, cioè che l’unica cosa è superare gli avversari e la vittoria è tutto, cosicché l’invito a superare i limiti finisce in un elogio disumano e diseducativo dell’eccesso.
Inoltre quel motto, e il lettore attento l’avrà già notato, è incompleto. Infatti nel 2021 il Comitato Olimpico Internazionale, dopo l’esperienza del Covid e la maturata consapevolezza che “nessuno si salva da solo”, ha aggiunto un altro aggettivo comparativo, sempre in funzione avverbiale, “communiter”, insieme. Per cui il motto suona oggi in inglese così: “Faster, Higher, Stronger-Together”. E, si noti il dettaglio molto rilevante, l’aggiunta di “insieme” è preceduta da un trattino il che sta a significare che tutto quello che si persegue nello sport olimpico ha un senso solo perché lo si fa insieme. La competizione presuppone la cooperazione e la collaborazione. Anzi, la competizione ha un senso solo perché si fonda sulla precedente solidarietà sportiva, che è il riconoscimento della comune umanità. La bella competizione della migliore gioventù sportiva mondiale, a cui abbiamo assistito ancora una volta a Parigi (e che è continuata, non a caso, nelle gare paralimpiche), nonostante tutte le contraddizioni che l’accompagnano, ha un valore perché si basa sulla collaborazione e la pace. Anche se, anche questa volta, purtroppo, noi chiamiamo pace quando la guerra è da un’altra parte nel mondo. L’esclusione della Russia sta lì a ricordarcelo.
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