HomeLa RivistaEducazione e AmbienteTRANSIZIONE ECO-ILLOGICA:Tipping point, punto di non ritorno o punto di svolta mentale?

TRANSIZIONE ECO-ILLOGICA:Tipping point, punto di non ritorno o punto di svolta mentale?

 

Non è piacevole ammetterlo, siamo tutti affetti dall’”itangliano”, da questa lingua bastarda infarcita di termini inglesi, di un inglese per di più globale, anch’esso meticcio. Anche se questo è vero, uso il termine tipping point, ovvero punto di non ritorno, perché suona bene e, per quelli della mia generazione, potrebbe persino richiamare il film Zabrisckie point, il capolavoro di Antonioni con la sua memorabile scena dell’esplosione in pieno deserto dei frigoriferi pieni di merci accompagnata dalle note travolgenti dei Pink Floyd. Immaginario a parte, il punto di non ritorno è oramai una nozione al centro delle preoccupazioni di tutti gli umani, siano essi scienziati del clima o semplici cittadini. O meglio, dovrebbe essere al centro di ogni riflessione, non per masochismo o per un’insana passione apocalittica, ma perché oramai c’è una convergenza di tutta la ricerca scientifica sulla necessità di invertire il modello di sviluppo, di cambiare modelli di vita che non possono più andare avanti con la loro inerzia distruttiva.

Il tipping point o, meglio, la paura di oltrepassare quel limite oltre il quale non si può più tornare indietro, potrebbe invece essere un momento di svolta di tipo mentale ed educativo. La paura del punto di non ritorno dovrebbe portare ad un punto di svolta nelle coscienze. È evidente che siamo seduti su di una pentola a pressione, se la nostra pressione sull’ambiente aumenterà sotto forma di inquinamento, di consumo di suolo, di distruzione di biodiversità, la pentola potrebbe esplodere, potrebbe dar vita ad una serie di effetti moltiplicatori veloci e irreversibili.

L’Antropocene, come è stata ribattezzata l’era geologica attuale che prende il suo nome dagli effetti dell’impronta dell’antropos, dell’azione umana sulla stessa superficie geologica della Terra, potrebbe diventare un’Antropocene positivo. Ma questo sarà possibile solo se sapremo riorientare il tragitto dell’umanità nell’ambito dei limiti. Ma quali sono questi limiti? Gli studiosi J. Rokstrom e M. Klum parlano dei nove confini planetari: cambiamento climatico, riduzione della fascia di ozono stratosferico, perdita di biodiversità, inquinamento da sostanze chimiche, acidificazione degli oceani, utilizzo di acqua dolce, cambiamento nell’uso dei suoli, inquinamento da azoto e fosforo, inquinamento atmosferico e diffusione di aerosol. Cose complesse ma che dovemmo sapere tutti. Questi sono i nuovi limiti da non superare nell’ambito globale, ma anche e da subito, nell’ambito locale.

 

La saggezza greca torna utile ancora: chi conosce i propri limiti non teme il proprio destino. Per rispettare i limiti bisogna conoscerli e imparare a non superarli. Per questo bisogna pensare in modo diverso, abbiamo bisogno di un punto di svolta nel pensiero e nelle abitudini. Ma questo accadrà solo quando ci saranno abbastanza cittadini coinvolti in questo cambiamento nel concepire i rapporti della nostra specie con la natura.

“Il grande divario che si è aperto tra la consapevolezza dei cittadini e la loro richiesta di soluzioni politiche e la scarsa attenzione dei media e la debolezza della politica attuale”, questo denunciavano i due studiosi che abbiamo più sopra citato, nel 2015. Oggi questa divaricazione è ancora più grande. La società civile sta diventando più consapevole, forse più della politica stessa. E le insufficienze della politica appaiono ancora più pericolose.

Ne sono un esempio il nostro PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) e l’azione del neonato Ministero della transizione ecologica. Con una spruzzata di color verde, moltissimi fondi vanno in realtà nella direzione di incentivare la produzione di combustibili quando è evidente che l’unica fonte veramente rinnovabile è l’energia solare e che dobbiamo ridurre drasticamente ogni forma di combustione. Il tutto a favore delle grandi lobby dello sviluppo illimitato e dello sfruttamento selvaggio e predatorio a scopo di profitto. Un esempio all’interno dell’uso del Recovery Plan italiano, è l’utilizzo dei cementifici, industrie in crisi da tempo, come inceneritori di riserva al posto degli inceneritori che adesso sembrano troppo costosi e dannosi. La vera transizione ecologica, non quella “eco-illogica” del Ministro Cingolani, è quella dell’economia circolare che non prevede il recupero dell’energia ma il recupero e il riutilizzo di tutti i materiali. Per fare questo dobbiamo ripensare la produzione e il consumo, prima ancora dello smaltimento dei rifiuti.  L’economia circolare non consiste nel far circolare i rifiuti da una parte all’altra del paese per poi utilizzarli come combustibili, facendoli passare per energie rinnovabili, ma cambiare stili di vita con una grande innovazione applicata, sostenuta da scelte politiche coerenti e da finanziamenti dedicati. Il PNRR sembra voler dare soldi invece alle stesse filiere che hanno prodotto l’attuale danno ambientale.

È anche di questo che si parlerà sabato 12 giugno a Roma, al Parco degli acquedotti, nell’assemblea organizzata da “Generazioni future”, la cooperativa di mutuo soccorso intergenerazionale per la difesa dei beni comuni, nata da quello che era il comitato Rodotà che propose proprio dieci anni fa il referendum vittorioso sull’acqua come bene comune. Una iniziativa nata per ridare voce alla società civile a difesa dei beni comuni come la salute e l’ambiente. Perché, tra l’altro, una degli effetti perversi della crisi post-pandemica che stiamo vivendo è la fretta di spendere i soldi dell’Unione Europea, che porta a considerare come un intralcio la partecipazione dei cittadini, e come pastoie burocratiche, le procedure e le regole che garantiscono la loro salute e l’ambiente.   

Post Correlati

Nessun Commento

Inserisci un commento