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DALLA SOCIETA’ DEL RISCHIO ALLA SOCIETA’ DELLA CATASTROFE?

Il Limite / 59

Dalla società del rischio alla società della catastrofe?

di Raniero Regni

L’Antropocene, con l’antropizzazione completa del pianeta, sta mostrando che l’effetto della crescita illimitata delle attività umane è in rotta di collisione con le possibilità di vita sul pianeta…

Nell’oramai lontano 1986, un brillante sociologo tedesco scrisse un libro, che venne tradotto in italiano solo nel 2000, intitolato La società del rischio. Verso una seconda modernità.  Si capì subito che si trattava di un bel tentativo di afferrare il proprio tempo con il pensiero. La condizione dell’umanità nella seconda modernità, ovvero alla fine del secondo millennio, si presentava in maniera diversa dalla condizione umana di tutte le epoche precedenti. Gli esseri umani fino ad allora avevano sempre avuto a che fare con i pericoli naturali, con delle minacce che venivano da un mondo non artificiale ma naturale. Terremoti, carestie, cambiamenti metereologici capricciosi esponevano gli umani ai pericoli. Con la seconda modernità, ovvero con il tempo che ancora noi stiamo vivendo, ai pericoli naturali, che pure rimangono, si sono aggiunti i rischi. Che cosa sono i rischi? Sono le conseguenze dell’azione collettiva di sette miliardi di esseri umani sul pianeta che tornano indietro sotto forma di auto-minaccia. E’ la nostra azione sulla Terra che provoca il cambiamento climatico, l’inquinamento dei mari, la scomparsa di molte specie viventi e così via. Il rischio è forse più insidioso del pericolo, perché è più difficile individuarlo e per questo più  minaccioso.

Che cosa fare per scongiurare i rischi di danni ambientali? La risposta che, almeno sul piano concettuale, si è proposta è stato il cosiddetto “principio di precauzione”.  Qualora si presenti il dubbio che immettere sostanze nell’atmosfera, immettere piante geneticamente modificate nell’ambiente, sviluppare certe tecnologie, possa rappresentare un pericolo anche solo potenziale, non lo si dovesse fare. Nel dubbio non farlo. Nel dubbio, l’onere della prova passava a chi voleva farlo e, siccome non si potevano raggiugere delle certezze, non si sarebbe fatto. Il principio di precauzione è diventato parte integrante della legislazione dell’Unione europea e quindi, formalmente dovrebbe dirigere anche le scelte dei governi dell’Unione.

Ma il nostro tempo corre in fretta. La “società del rischio” trascolora nell’”età degli shock”, catastrofi globali, che abbiamo attraversato tutti negli ultimi due decenni (l’attacco alla Torri gemelle, la crisi economica del 2008, il cambiamento climatico, la pandemia, la guerra in Ucraina). Sappiamo a quali pericoli siamo esposti, disponiamo di un’infinità di dati, ma non riusciamo ad afferrare la catena delle interrelazioni. Non riusciamo a capire fino in fondo l’ampiezza del danno che il nostro sviluppo determina sull’ambiente.

L’Antropocene, con l’antropizzazione completa del pianeta, sta mostrando che l’effetto della crescita illimitata delle attività umane è in rotta di collisione con le possibilità di vita sul pianeta. Si crea così un nuovo rapporto tra il pensabile e il possibile. Quello che è possibile non è solo il rischio bensì la catastrofe. Ma questa sembra ancora sfuggire alla nostra riflessività sociale.

Forse sarà necessario passare dal pensare il rischio al pensare la catastrofe e poi a comportarsi di conseguenza. Anche il peggio è oramai possibile, anzi probabile, anzi certo. Ora il principio di precauzione deve essere posto in relazione al fatto che “il peggio è possibile”. Non solo il rischio come possibilità ma, a questo punto, la catastrofe come certezza, può suggerire la prudenza. Così l’onere della prova passa a chi vuole l’innovazione, l’innovatore deve provare l’innocuità del suo prodotto e non  quelle che potrebbero essere le vittime, dimostrarne la nocività.    

 “Abbiamo acquisito i mezzi per distruggere il pianeta e noi stessi – ha scritto il filosofo francese J. P. Dupuy – ma non abbiamo cambiato la nostra maniera di pensare”. Per questo lui propone un “catastrofismo illuminato”. Ovvero un modo di pensare e di credere paradossale perché la catastrofe è ritenuta impossibile prima che si realizzi. Ma una volta accaduta, essa appare come dipendente dall’ordine ovvio delle cose. Pensare la catastrofe vuol dire pensare qualcosa che non si crede che possa accadere anche se si hanno tutti gli elementi per sapere che essa invece si produrrà. Questo modo di pensare è forse capace di produrre una prudenza adatta ai nostri tempi.

 E’ qualcosa che assomiglia a quella che il grande filosofo tedesco H. Jonas chiamava la “euritistica della paura”, ovvero una paura altruistica che non parte dal timore per sé ma per quello degli altri, il timore che le nuove generazioni debbano affrontare dei cambiamenti ambientali causati dalla nostra azione irresponsabile.

Occorre una nuova etica. Infatti, perché i valori abbiano una presa suoi comportamenti, devono essere interiorizzati, come dice U. Galimberti, “devono farsi psiche”. L’etica riguarda i conflitti tra gli esseri umani, ma se io inquino non esiste un senso di colpa nei confronti della natura. Le colpe nei confronti della natura non sono diventate psiche, non sono ancora state interiorizzate. Ecco l’indispensabile interiorizzazione di quello che H. Jonas aveva profeticamente chiamato il nuovo imperativo assoluto, ovvero l’imperativo ecologico: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”.

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