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MONTE DEI PASCHI DI SIENA : UNA RIBOLLITA TOSCANA

Anche per le sciocchezze non di doverebbe mai andare oltre la modica quantità. Sul Monte dei Paschi di Siena la misura è stata largamente superata. Da tutti. A cominciare dai politici per finire ai media, passando per il sottobosco saprofita dei faccendieri che sperano di raccogliere qualche briciola che per sbaglio cadrà dal tavolo delle trattative. La questione è abbastanza semplice dal punto di vista strettamente tecnico ma complicata dal fatto che la banca in questione è stata da sempre una banca “politica”, avvezza a servire gli interessi del Partito Comunista e dei suoi succedanei che nel tempo ne hanno rilevato uomini e voti. L’intera faccenda potrebbe essere facilmente derubricata a mera operazione di incorporazione bancaria  ma, dato che c’è di mezzo lo Stato sul quale graveranno gli oneri necessari per ripulire il bilancio della banca senese, l’operazione deve essere inquadrata in altro modo  cercando di rispettare gli azionisti che detengono il flottante di Unicredit  e i contribuenti italiani che, in definitiva, ne sopporteranno le conseguenze.

 Tentiamo dunque di chiarire il quadro.  

Il Monte dei Paschi di Siena, dal punto di vista tecnico, sarebbe una banca già fallita da tempo. Alle spese senza controllo sollecitate dalla politica locale e nazionale e al mantenimento obbligato di una forza lavoro abnorme si è sovrapposta l’acquisizione della banca Antonventa, passata alla storia 14 anni fa come l’operazione meno trasparente tra quelle realizzate nell’ambito del cosiddetto risiko bancario. Una botta finale che ha fatto stramazzare i conti MPS a mera spazzatura. Ricordo che MPS comprò la banca veneta da Santander per 9 miliardi più 7 di debiti  dopo che quest’ultima l’aveva comprata da Abn Amro solo qualche settimana prima per 6,6 miliardi. Oggi, dopo gli stress test dell”EBA (Autorità Bancaria Europea) , MPS presenta il peggior risultato delle 50 banche sottoposte a controllo e registrerebbe a fine 2023 perdite cumulate per 2,73 miliardi di Euro. Il Ministro Franco, titolare del MEF (Ministero Economia e Finanza, azionista di maggioranza in MPS) nell’intento di evitare la risoluzione della banca, licenziamenti a valanga e conseguenze imprevedibili a livello di sistema si è mosso per accelerare la pratica con Unicredit, individuata già dal governo  Conte con Gualtieri al dicastero economico, come possibile incorporante. Di fatto il Governo Cinque Stelle-PD, nel solco della protezione sempre assicurata a Monte Paschi dalla regione Toscana, dal PCI e dal PDS, ha obbligato Unicredit ad ingoiare la  velenosa  polpetta preparata con cura già  nell’ottobre 2020, spingendo alle dimissioni Jean Pierre Mustier e pilotando  la nomina dell’ex Ministro Pier Carlo Padoan a Presidente e Andrea Orcel, già artefice della discussa e  oscura operazione Antonveneta, quale Amministratore delegato. Uomini sui quali il Governo giallo-rosso può  contare ad occhi chiusi  perché portatori della stessa fede partitica e quindi funzionali alla realizzazione di un progetto costruito per dare l’impressione di voler  salvaguardare i posti di lavoro diretti e indiretti che, paradossalmente, quella stessa parte politica aveva messo in pericolo attraverso una spregiudicata conduzione della banca. Oggi il Governo Draghi è consapevole di avere tra le mani una patata bollente (ogni riferimento a fatti romani è puramente casuale) che dovrà cucinare con rapidità e perizia  per trovare un  accordo onorevole con Unicredit che, a sua volta, non è nella condizione di porre troppe condizioni proprio perché indebolita nei suoi vertici più rappresentativi. Sul tavolo delle trattative rimangono alcune importanti questioni che qui di seguito sintetizzo:

  1. I crediti deteriorati, classificati come Npl (1), non passerebbero ad Unicredit ma sarebbero indirizzati verso una Bad Bank  (AMCO ?) ;

  2. I contenziosi straordinari non attinenti ad attività bancaria insieme ai rischi ad essi legati verrebbero gestiti da MPS;

  3. Il personale in esubero è stato stimato in circa 10 mila unità di cui circa 6 mila su base volontaria. Un problema non di poco conto che da solo condizionerà lo sviluppo della trattativa.

  4. La struttura tecnica che emergerà al termine della operazione è ancora tutta da costruire e dipenderà molto da quanto lo Stato sarà disposto a pagare per chiudere il cerchio apertosi quattordici anni fa.  

In ordine a quest’ultimo punto mi permetto di richiamare alcuni dati certi dai quali sarà impossibile prescindere: solo per la gestione dell’organico il costo a carico dello Stato dovrebbe aggirarsi intorno a 1,5 miliardi, ai quali vanno aggiunti 6 miliardi di rischi legali e 4 miliardi per i crediti deteriorati (Npl) e, come surplus, ad un bonus fiscale di circa 3 miliardi previsto dal Governo per le fusioni bancarie da realizzare entro il 2022. L’addizione porta ad un risultato finale che, a mio sommesso parere, è il vero scandalo dell’operazione, anche tenendo conto del fatto che alla fine della fiera avremmo ottenuto che le banche in difficoltà saranno due e non una soltanto. Insomma una vera ribollita toscana che il contribuente italiano avrà qualche difficoltà a digerire.

1) Sono conosciuti anche come prestiti non performanti o, in inglese, non performing loans, (NPL), sono crediti delle banche (mutui, finanziamenti, prestiti) che i debitori non riescono più a ripagare regolarmente o del tutto. Si tratta in pratica di crediti delle banche (debiti per gli altri soggetti) per i quali la riscossione è incerta sia in termini di rispetto della scadenza sia per l’ammontare dell’esposizione di capitale. I non performing loans nel linguaggio bancario sono chiamati anche crediti deteriorati o crediti inesigibili e si distinguono in varie categorie fra le quali le più importanti sono le sofferenze. 

  

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