HomeLa RivistaAttualità e AmarcordQUELL’ESAME DI MATURITA’ COME UN INCUBO

QUELL’ESAME DI MATURITA’ COME UN INCUBO

Tempo d’esame di maturità. Il mio fu un incubo a lieto fine, quando incontrai uno speciale componente della commissione che non ho mai dimenticato. “I professori dovrebbero essere tutti così…”. Questo pensai, alzandomi soddisfatto dal tavolo, subito dopo l’esame di Stato che quell’anno (1952) coincise con il ripristino delle norme introdotte nel 1923 dalla riforma Gentile. Formata prevalentemente da docenti esterni, la commissione era per tutti lo scoglio principale da superare. Per fortuna, me la cavai abbastanza bene, specie nelle materie letterarie, dove feci bella figura con un commissario d’esame attento e gentile. Dopo un bel voto allo scritto, anche l’orale andò niente male. Solo per la domanda finale feci scena muta, mostrando imbarazzo e preoccupazione. Ma il professore, sempre cortese e incoraggiante, girò subito la domanda, per tastare non il livello mnemonico ma la capacità di riflessione del candidato. Così si concluse il mio esame di maturità con uno sconosciuto docente esterno chiamato Mario Pomilio, poi diventato scrittore fra i più importanti del secolo scorso. Che fin da allora ebbe un rapporto tutto particolare con la “città dell’anima”, ambientandovi due suoi famosi romanzi: “L’uccello nella cupola” (1954)

e “La Compromissione” (1965). Vi era arrivato da Parigi, dopo aver sofferto un duro senso di esilio e a Teramo lo scrittore aveva riscoperto il suo paese, la sua gente, persino il sapore della sua lingua. Ho avuto il privilegio di mantenere con Mario Pomilio un lungo rapporto di amicizia e ammirazione. Già malato, gli telefonavo nella sua casa di Napoli per chiedergli di raccontare in una intervista com’era nato quel suo rapporto con la città. Dove aveva riscoperto “tutto ciò che poteva esserci di intimo, familiare, affabile, conversevole nei modi di vita della media provincia italiana, con le sue soste al caffè, gli incontri per le strade, il corso che si popolava verso l’ora del crepuscolo, la villa comunale fitta d’alberi, così adatta alle soste nei pomeriggi canicolari e magari ai convegni amorosi della sera…”. Tra una flebo e l’altra, rispondeva sempre alle mie telefonate di cronista invadente:

“Per me Teramo è stata anche qualcosa di più, un luogo dell’immaginazione, una specie di mappa dell’anima…”.

Poi, nel corso degli anni, con le rovine delle ruspe, arrivarono nella città i giorni della delusione e lo scrittore vide sfaldarsi bruscamente l’immagine che se n’era fatto e con essa frantumarsi il piccolo universo fantastico idealmente abitato per anni. Fino a concludere, amaro”:

“Non vorrei esagerare: ma se oggi volessi indicare un caso esemplare di come è stata rotta un’armonia, anche estetica, e alterata una ragione urbanistica che resisteva da duemila anni, sicuramente sceglierei Teramo. E aggiungo che quanto la borghesia post-risorgimentale era stata gelosa della sua città, altrettanto quella d’oggi vi ha operato pesantemente, e non solo sconciandone il paesaggio, ma mettendone in questione l’essenza…”.

                           Mario Pomilio

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