La triste signora

Lo sapevo, fin da quando ho scelto il titolo per questa rubrica. Parlando di limiti, prima o poi avrei dovuto parlare del limite di tutti i limiti, della nostra finitudine, della nostra mortalità, avrei dovuto parlare della morte. La paura della morte è la madre di tutte le paure. La stessa paura di essere abbandonati non è che la sorella di quel primigenio timore, di fronte al quale gli esseri umani si sono sempre sentiti come una cittadella priva di difese.

La morte è anche la madre di tutti i limiti, come il dolore fisico e quello psicologico o quello morale. La possiamo addolcire con l’ironia della vecchia battuta di B. Franklin, “al mondo di sicuro ci sono solo la morte e le tasse”, ma il volto della vecchia signora o del triste mietitore, rappresentano un limite sicuro che attende tutti ed ognuno. Qualcuno sosteneva che nella società ricca e affluente il vero argomento pornografico, il vero tabù di ogni discorso non era più il sesso, ma era diventato il discorso sulla morte. Forse per questo provo imbarazzo nel pararne qui, magari provocando qualche gesto scaramantico del lettore. Nella moltiplicazione dei mezzi abbiamo dimenticato però il senso dei fini, nell’occuparci della salute ci siamo dimenticati del discorso sulla salvezza. La pandemia è tornata a ricordarci, a noi figli del pensiero prometeico moderno, che ci siamo ribellati contro il limite imposto dalla divinità, che siamo vulnerabili e mortali. La nostra splendida civiltà, con tutti i suoi successi è esposta, come tutto il resto, alla fine. 

È vero che ognuno di noi vive nella presunzione dell’immortalità ed anche quando ad andarsene sono degli anziani l’impressione è sempre quella della sorpresa, forse dell’ingiustizia, per la scomparsa che appare sempre prematura. Questo perché viviamo nella presunzione dell’immortalità. Come avrebbe detto un filosofo come Epicuro, la morte non è un problema della vita, e qualcun altro, come Platone, gli avrebbe replicato che invece tutta la vita non è che un prepararsi a morire. Inconsciamente lo sappiamo, consapevolmente non ci poniamo il problema, la morte sembra riguardare sempre gli altri, la vita finisce per loro non per noi. Eppure, come scriveva Emingway, se racconti fino in fondo una storia finisce sempre con la morte.

Per i vivi la morte appare sempre un’ingiustizia e uno scandalo. Ma è proprio la nostra finitudine che serve a capire che cosa importa davvero. E proprio in un tempo come il nostro in cui la morte è tornata alla ribalta come minaccia collettiva di una pandemia,  dovremmo interrogarci collettivamente su che cosa sia davvero importante nella vita, proprio al cospetto della morte.

Come scriveva R. Mazzetti, il grande pedagogista, in una pagina di prosa straordinaria, una pagina che il suo amico Armando Armando aveva definito, dopo la morte del suo autore e collaboratore più importante, “una pagina da antologia”. Scriveva Mazzetti, dedicando uno dei suoi libri più belli alla memoria di sua madre, “ricordavo, nel dialogo, Montaigne: muore il re, muore il contadino, muoiono interi popoli tutti a un modo, nell’unica scelta che non ammette scelta: che sceglie, non scelta; che è presente in tutto ciò che nasce e in tutto ciò che diviene, in tutto ciò che è tempo-spazio e che, proprio perché tale, fa cari, preziosi, urgenti e validi gli eventi della natura e i fatti-eventi degli uomini”. Sì, la mortalità rende prezioso il tempo della vita, ciò che è fondamentale fare durante il suo corso. Sia che l’esistenza venga considerata una corda tesa tra l’essere e il nulla, sia che essa venga vissuta come un ponte che ha un appoggio nel finito e uno nell’Infinito, nella Trascendenza, nel Totalmente altro, ovvero nell’immenso nome di Dio, è al cospetto della morte che essa assume un senso. La fede ostinata dei credenti di ogni tempo e di ogni religione proclama che la morte non ha l’ultima parola. Un libero religioso come A. Capitini la chiamava “la compresenza dei morti e dei viventi”. Sia che l’essere umano si concepisca come mortale sia che si pensi dotato di un’anima immortale, il senso dell’umano esistere è legato al senso della morte, come questa è sorella della vita e dell’amore. Se nella vita siamo tutti diversi per nascita e natura, la morte ci fa eguali, leopardianamente eguali, affratellati da uno stesso destino. Ma è proprio la nostra finitudine a doverci convincere a non sprecare i nostri giorni, a metterli al servizio del bene, ovvero al servizio degli altri, scoprendo la fratellanza, abbandonando il mondo delle apparenze verso l’essenziale.

Concludo queste note inconcludenticon un riferimento a M. Weber, un tema su cui mai nessuno potrà dire probabilmente l’ultima parola, . Mi ha sempre colpito perché, nella famosa conferenza tenuta dal sociologo tedesco nel 1917 agli studenti dell’università di Monaco sul lavoro scientifico come professione, compare una riflessione sulla morte. Citando Tolstoj sostiene che, per il moderno razionalismo scientifico, la morte non ha alcun senso. Oggi non si può più morire vecchi e sazi di anni come i profeti dell’antico Testamento che potevano ritenere di averne viste abbastanza. Di fronte al progresso scientifico continuo, si può morire stanchi della vita ma non sazi. Infatti, l’uomo “civilizzato” di ciò che la vita dello spirito continuamente produce coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù della sua progressività priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità”. La scienza trova in questo un limite paradossale, da sola non può rispondere alla domanda fondamentale “come dobbiamo vivere?”, ecco perché ha bisogno della Saggezza.

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