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Che cosa si perde vincendo?

Vincere può voler dire non solo essere il migliore, ma anche fare del proprio meglio per sentirsi pienamente vivi. Equilibrare la voglia di vincere con la certezza di non aver bisogno di vincere per sentirsi felice o realizzato

Non so se il vocabolario sarà d’accordo, ma uno dei sinonimi della parola “limite” è la parola “sconfitta”. Chi perde, in una gara o in una competizione, per non parlare poi della guerra come di ogni contesa, scopre il suo limite. Le due parole, anche se non fossero sinonime, condividono però un sapore amaro, sapore di polvere mangiata. “Un Dio ti guarda…Ierone”, scrive Pindaro nelle sue Olimpiche, splendide poesie in onore dei vincitori delle gare. Chi vince si sente una divinità, ha il potere, è riuscito nella conquista. Chi perde invece scopre la propria incapacità e la propria impotenza, scopre che si era illuso, si sente schiacciato a terra.

Nike, la vittoria alata di Samotracia (III secolo a. C.), vola sulla terra per premiare il vincitore, riducendo la distanza tra il cielo e la terra. Nietzsche, in una pagina straordinaria, sembra commentare proprio la statua greca esposta al Louvre, una delle statue più belle che abbia mai visto, aggiungendo però un tocco di straordinaria delicatezza. “Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”. Chi vince è felice, chi perde è triste, eppure nelle parole del filosofo tedesco vibra qualcosa di diverso, addirittura di opposto, all’arroganza del vincitore.

Gli esempi che abbiamo fatto non a caso li abbiamo presi dalla tradizione greco-antica. L’uomo greco è un uomo agonale, un essere in perenne competizione. Nella Grecia omerica dominano “le virtù delle società eroiche” secondo cui ciascun membro della società doveva eccellere in quelle che erano le qualità del suo rango e fare fino alla morte quello che doveva fare. La forza fisica, il coraggio, l’intelligenza sono annoverate tra le eccellenze. La vittoria e la sconfitta, il ricordo delle proprie gesta che echeggia nell’eternità, l’oblio della schiavitù e della morte, delimitano l’orizzonte delle possibilità. Eppure, osserva un grande studioso come A. McIntyre, chi ha scritto l’Iliade, diversamente dai suoi personaggi, mette in discussione che cosa vuol dire vincere e cosa vuol dire perdere. Fino al punto in cui la vittoria può essere una forma di sconfitta e questa può diventare l’occasione per una forma di vittoria. Alla saggezza di chi non approfitta della sua vittoria, si contrappone la Pleonexia, che è il nome di un vizio, il desiderio di avere di più. Questo è il vizio di Agamennone, il quale non ha mai voluto imparare la verità per insegnare la quale, l’Iliade stessa è stata scritta. Egli vuole soltanto vincere e accaparrarsi i frutti della vittoria. Per lui il successo è l’unico scopo dell’azione. Il grande poema omerico è stato scritto per vedere il mondo anche dalla parte degli sconfitti. L’eroe più grande è Ettore, il perdente.

Dovremmo quindi domandarci: che cosa si perde quando si vince? Dovremmo pure ridefinire il concetto di successo e di vittoria nella vita chiedendoci: “come abbiamo corso?”, e non “come siamo arrivati?”. Vincere allora può voler dire non solo essere il migliore, ma anche fare del proprio meglio per sentirsi pienamente vivi. Equilibrare la voglia di vincere con la certezza di non aver bisogno di vincere per sentirsi felice o realizzato. In una prospettiva più larga e più alta, la vita è una gara di perfezionamento continuo aperta all’Assoluto, perfezionamento delle virtù che aiutino gli altri. 

Ecco così che l’agonismo trova un limite in se stesso. Per cui diventano legittime anche altre domande. Che ne è di chi perde? E che senso ha vincere, se alla fine saremo tutti sconfitti dalla morte? Qui si ripropone il problema del limite, del “conosci te stesso”, che voleva ricordare ai Greci, “sappi qual è il tuo posto”, non pensare di essere un Dio. da qui la sentenza fondamentale, “chi conosce il proprio limite non teme il proprio destino”. Ma l’esercizio non è forse encomiabile? E il desiderio di perfezionamento non va elogiato? Sì, soprattutto nella competizione con se stessi, quando magari si ritorna a sé dopo che si è fatto squadra. Ma lo scopo della competizione allora non è vincere ma vivere una vita migliore, prendendosi cura della propria anima.

In questa prospettiva la vittoria diventa compatibile con la fratellanza universale, ed è possibile amare il prossimo mentre si cerca di batterlo in una partita di pallone. Così anche l’idea che lo sport sia la derivazione più diretta dalla guerra, ovvero la prosecuzione della guerra o la preparazione alla guerra con altri mezzi, può essere messa in discussione. La guerra è una corruzione dello sport. Lo stato naturale è la pace, e nella pace c’è una danza competitiva, non la guerra.

Allora bisogna chiedersi ancora: chi perderà vincendo? Chi vince non sa che “la conquista è il surrogato della grandezza”, diceva S. Weil. Per i perdenti c’è la nobiltà della sconfitta, c’è la verità che rimane in minoranza, c’è il fatto che chi vince smette di pensare, c’è persino l’orgoglio del fallimento, c’è l’idea sostenuta dai guerrieri vichinghi che, per andare nel paradiso, nel Walhalla, non si dovesse vincere ma si dovesse morire con la spada in mano.

“Non si può mutare nulla che non si sia accettato”, ha scritto C. G. Jung. Può migliorare se stesso solo chi ha scoperto il suo limite, l’ha accettato ed ora può pensare anche di migliorarlo e questo è il suo grande valore educativo. Sulla sconfitta una delle affermazioni più paradossalmente vere appare quella di Nelson Mandela, “nella vita la sconfitta non esiste: o si vince o si impara”.

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