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Apocalisse, la fine del mondo come l’abbiamo conosciuto

Apocalisse, al di là delle pur necessarie disquisizioni teologiche, è sinonimo di fine del mondo, ma l’etimologia rimanda anche al termine rivelazione. Non ci dovrebbe essere niente dopo la fine del mondo, invece il libro di Cardini e Nencini si riferisce ad un dopo e il sottotitolo ne indica anche il contenuto e la direzione. Allora vuol dire che la fine del mondo è in realtà la fine di un mondo e la linea di separazione è quella della pandemia, da cui cerchiamo faticosamente di uscire.

Qualche cosa di grave e irreversibile è successo, non solo per i morti e i malati, ma per tutti. Allora quello che più importa non è l’Apocalisse come fine del mondo, ma come rivelazione.

Che cosa ci rivela questo evento inaudito? Che il tentativo prometeico di dominio tecnico del mondo non solo è fragile ma impossibile. Al di là delle ammirevoli conquiste è evidente che esso si basa su di una vera e propria inversione di valori, sulla quale Cardini insiste da diverso tempo. Fra il XIII e il XVI secolo il rapporto tra domanda e offerta si è capovolto. Se per millenni le società ha dovuto subordinare la produzione al consumo. Con l’età moderna la produzione ha finito per precedere e condizionare il consumo di massa, dove l’unico scopo del consumo è sviluppare la produzione. E questo modello ha raggiunto il massimo ai nostri giorni. Ora sembra inceppato e sembra rivelare la sua contraddizione interna.

Si può quindi parlare di un “mondo di ieri”, di prima della pandemia? Gli autori dicono di sì. Ma questo evento apocalittico è stato preparato da altri eventi importanti. Il primo è l’ammissione al WTO, l’organizzazione per il commercio mondiale, della Cina senza grandi condizioni. Come la prima guerra mondiale ha significato la fine dell’egemonia europea nel mondo, questa data ha significato la fine dell’atlantismo dominato dagli Stati Uniti. Il secondo evento è la grande crisi del 2008 la quale ha seppellito la convinzione che i mercati siano capaci di autocorreggersi da soli. Il G7 è diventato G 20 ed ha visto l’ingresso di regimi non democratici. Questo ha scosso l’Occidente.

Occidente, è evidente che questa nozione è molto infida e scivolosa, usata spesso come una vera e propria ideologia, ma vuole pur dire qualcosa. Si riferisce a quelli che gli autori chiamano i sette pilastri che dal Cinquecento caratterizzano la civiltà occidentale: proprietà privata, spirto competitivo, rivoluzione medica e scientifica, istituzioni democratiche, valorizzazione della libertà, etica del lavoro, società dei consumi. La pandemia ha costretto tutti a riscoprire l’autodisciplina, la solidarietà, il senso del limite e della misura. Con questi temi, così come con il problema della morte, della finitudine e della speranza, l’Occidente dovrà confrontarsi in maniera molto radicale, in un confronto serrato con l’Oriente.

Uno dei due autori è un grande storico del medioevo e ricorda che i nostri antenati, di fronte ai pericoli e alla morte, avevano, da una parte, una straordinaria capacità di sopportare le sofferenze e, dall’altra, una forte fede capace di sostenere la speranza. Noi per certi versi abbiamo perduto sia la prima che la seconda E ci ricorda che di fronte alle crisi di solito si produce il meglio e il peggio dell’essere umano. Gli insegnamenti che ne possiamo trarre sono diversi: da soli non ci si salva, siamo tutti sulla stessa barca; il Welfare State non può essere buttato nel mare delle privatizzazioni; la tecnologia deve rimanere sotto il controllo umano, altrimenti è la fine della privacy e della libertà; non può essere il mercato ma la politica, tesa all’interesse pubblico, quella che deve indirizzare le scelte. Pericoloso sarebbe seguire la tentazione del mix costituito da autoritarismo politico ed efficienza economica. Coloro che considerano la democrazia e

l’ecologia come intralci sono anche coloro che ci hanno condotto alla crisi attuale, per cui non si può cercare il rimedio nello stesso luogo dove è nato il problema.

Ogni crisi è un bivio, e quella che stiamo vivendo è una grande crisi. Quale direzione intraprendere? Il primo cartello indicatore da seguire è quello della consapevolezza, in essa risiede il germe del cambiamento. Consapevolezza dei limiti dello sviluppo e quindi del cambiamento di rotta, del cambiamento di paradigma e dei modi di pensare. Il sottotitolo del libro indica giustamente non una semplice ripartenza, neanche un risorgimento ma una rinascita. Un termine evocativo, di natura religiosa. Essa rimanda alla creazione e alla resurrezione, non ad una semplice reincarnazione culturale. Abbiamo bisogno di un di più di vita e di saggezza. L’altra direzione in cui muoverci è quella della collaborazione e della solidarietà. E, infine, c’è l’Europa.

Tra l’Occidente angloamericano e l’Oriente cinese qual è il ruolo dell’Europa? La parte finale del libro cerca di indicare una via all’Unione Europea, quella di essere una cerniera creativa e originale tra Est ed Ovest, come tra Sud e Nord. Qui gli autori usano tre parole tedesche per indiare le tre dimensioni dell’appartenenza culturale e politica. L’Europa è l’unità di una molteplicità, delle molte Heimat, delle piccole patrie locali a cui ognuno di noi appartiene. Poi c’è la Vaterland, la terra dei padri, ovvero la nazione che le raggruppa e che non può scomparire nell’Unione perché ha profonde radici storiche, così come ha anche superato due guerre civili europee nel corso del ‘900 che ne hanno cementato l’unione. C’è poi la Grossvaterland, la Grande Madre Comune che è l’Europa verso la quale bisogna andare educando ad una forma nuova di patriottismo europeo.

Il libro si chiude con un confidenziale saluto a “Herr Spengler”, il grande autore de Il tramonto dell’Occidente, anche se la posizione del libro è più vicina all’idea che aveva Toymbee, che “le civiltà declinano quando i loro leader smettono di rispondere creativamente”. Ma assieme ai grandi autori si cita, in esergo, anche il testo di una vecchia canzone dei REM, con cui chiudiamo questo nostro invito alla lettura di un volumetto stimolante, scritto per di più, a dispetto del tema, in maniera brillante e godibile: “It’s the end of the world as we know it”, è la fine del mondo come l’abbiamo conosciuto. Ma il testo della canzone continua, con qualcosa che oggi assomiglia ad un augurio, “and I fell good” ed io mi sento bene!

  1. Cardini, R. Nencini, Dopo l’apocalisse. Ipotesi per una rinascita, La Vela 2020

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