Fonte: https://www.ilmartino.it/2018/03/transumanza-candidata-patrimonio-umanita
Uomini impegnati nelle mansioni di massari, sotto-massari, pastori, pastoricchi, butteracchi, casari e tutti al servizio di facoltosi datori di lavoro da cui ricevevano per il lavoro svolto un salario in denaro e una parca dotazione in cibo. Tanto parca che se una pecora moriva le sue carni, anziché essere mangiate in loco dai malnutriti pecorai, dovevano essere disossate, salate, essiccate al sole e restituite al padrone per il proprio beneficio. Questa peculiarità relativa alla ‘invenzione’ della misischia, o muscischia (oggi ricercato prodotto PAT) permette di appropinquarsi alle particolari connessioni che la transumanza ha avuto con il cibo e con le tradizioni gastronomiche appenniniche, molte delle quali scomparse o residuanti in luoghi assai circoscritti.
Dal punto di vista alimentare e da quello dei suoi protagonisti umani la transumanza ha significato soprattutto sacrificio, precarietà, esclusione dal beneficio gastronomico del prodotto generato dalle proprie fatiche. Perché se è vero che dalle pecore si ricavavano quantità enormi di latte, formaggi e carne (ma non sotto forma di arrosticini, prodotto novecentesco della pastorizia stanziale), è altrettanto vero che tutto questo ben di dio era appannaggio esclusivo dei proprietari delle greggi e non dei pastori che ne governavano il pascolo. Costoro, per la dura fatica sopportata, oltre alla misera paga avevano diritto a un quantitativo definito di pane, di olio e di sale. Tutto il resto che poteva essere mangiato era conseguenza del caso e della fantasia. Simile concatenazione di fattori ha fatto sì che la gastronomia della transumanza sia stata una gastronomia povera, di risulta, di furbizia e di sotterfugi. Quegli stessi sotterfugi che hanno dato luogo a sobri pancotti, a parsimoniose acquecotte, a frugali papponi realizzati con tutto quanto di commestibile poteva essere messo a cottura, insaporendolo con erbe di campo (tarassaco, silene, caccialepre, santoreggia e orapi che le stesse pecore provvedevano opportunamente a fertilizzare), pezzetti di lardo e, in casi non rari, con “sapide” pietre di mare. Ma i sotterfugi dei pastori, oltre a rendere gustoso quel poco di mangiabile che il caso e la natura mettevano loro a disposizione, consentivano di assicurarsi anche qualcosa di fortuito con cui variare nascostamente la loro monotonia alimentare. E’ il caso della rinomata, e abruzzese, pecora aglio cotturo (la pezzata in Alto Molise), oggi preparata con animali a fine carriera ma in origine realizzata con giovanissimi agnelli che inaspettati parti gemellari mettevano a disposizione delle scarne diete senza che il padrone potesse rendersi conto dell’ammanco. Ma è anche il caso dell’agnello casc’e ove che, in quasi tutti gli ambiti della tradizione culinaria appenninica, combinava l’ovino giovane con frittata, limone ed erbe aromatiche per preparare la colazione della Domenica di Resurezione unitamente alla coratella (cor, fes, pulmo) e ad altre specialità della gastronomia agropastorale. Specialità che, nei vari momenti dell’anno e in relazione ai vari ambiti geografici coinvolti nella pratica della transumanza, si arricchivano di originali “variazioni sul tema” che scomponevano l’ovino in un caleidoscopio di ricetti includenti ciavarre, (stufato di carne preparato con animale giovane), gnummareddi (involtini di interiora di agnello cotti alla brace),annodate (trippette di agnello cotte con aggiunta di pomodoro), ma anche torcinelli, abbuoti e numerose altre specialità alimentari incluse nella cosidetta cucina del quinto quarto.
Miscischia, carne di pecora fatta essiccare al sole e successivamente
tagliata a sottili striscioline condite con sale e peperoncino
Fonte: https://www.ecosangabriele.com/il-nutrimento-dei-pastori
In ogni caso la transumanza, oltre ad aver rappresentato un fondamentale strumento di sviluppo per le economie dell’Italia Appenninica e Meridionale, è stata anche un formidabile volano di civiltà in grado di favorire lo scambio e la diffusione di idee, pratiche di culto, gusti estetici, tendenze artistiche. E le tracce di una simile vicenda storica, di cui i pastori sono stati i principali protagonisti, sono tuttora leggibili nei retaggi tradizionali delle regioni coinvolte nell’allevamento itinerante.
Malauguratamente, sebbene nel 2019 la Transumanza sia stata inscritta dall’Unesco nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, di questa ampia esperienza umana che ha attraversato i lunghi evi della vita rurale e montana dell’Italia Centro-meridionale non rimangono che poche tracce sparse nel territorio (piccole chiese tratturali, ruderi di “poste”), nel patrimonio culturale (forme di pellegrinaggio, inflessioni linguistiche, elementi narrativi) e nelle pratiche gastronomiche locali. Pratiche che i recenti orientamenti legati al business turistico e alle istanze neo-folkloriche stanno già da alcuni anni cercando di ricomporre, di rivalorizzare e di riproporre all’esperienza del gusto.
di Ernesto Di Renzo – Università di Roma Tor Vergata