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LA VOCE IMMORTALE DI HILDE DOMIN

La poesia di Hilde Domin è come un fiume che scorre attraverso le generazioni, portando con sé saggezza, emozione e una profonda connessione con l’essenza umana dove ci viene offerta un’immersione nell’anima della sua opera, un viaggio attraverso versi intrisi di vita e morte, gioia e dolore. Domin, con la sua prosa apparentemente semplice, riesce a catturare la complessità dell’esistenza umana. I suoi versi, essenziali e pregni di esperienza vissuta, danzano attorno agli eterni temi della poesia con un tono laconico, quasi sussurrato, che tocca il cuore dei lettori.

La poesia nata da una vita segnata dall’esilio e dalla ricerca di identità,  trasmette un senso di meraviglia e terrore di fronte alla complessità del mondo. Figlia di un avvocato ebreo, la poetessa nacque nel 1909 a Colonia e visse un’esistenza nomade, spostandosi da Colonia a Heidelberg, Berlino e Bonn, prima di essere costretta all’esilio in Inghilterra e poi nella Repubblica Dominicana. È in questo contesto di perdita d’identità e di ricerca di un rifugio che la sua poesia trova la sua essenza più profonda.

Domin affronta il tema dell’esilio e dell’alienazione con una sensibilità straordinaria, esplorando il potere e il significato della lingua come strumento di identità e di sopravvivenza. La sua scrittura riflette un profondo senso di appartenenza alla lingua tedesca, anche quando è costretta a confrontarsi con il suo status di “straniera”. La poesia diventa così un rifugio, una forma di salvezza di fronte alla devastazione del mondo.

La poetessa traccia il suo percorso attraverso versi carichi di emozione e di profondità, dando voce alle sue esperienze personali e alla sua visione del mondo. La rosa, simbolo ricorrente nella sua poesia, diventa il sostegno della parola, l’ancora di salvezza in un mondo frantumato.

Il ritorno in Germania dopo trent’anni di esilio segna un momento significativo nella vita e nella poetica di Hilde Domin, evidenziando il legame indissolubile tra la sua esperienza personale e la sua espressione artistica. La sua poesia diventa così un atto di testimonianza e di resistenza, un modo per rivendicare la propria identità e la propria voce. ( R.P.)

 

vengono percorse da soli,

la delusione, la perdita,

il sacrificio,

sono soli.

Persino il morto che risponde a ogni richiamo

e che non si nega a nessuna richiesta

non ci soccorre

e osserva

se noi non cediamo.

Le mani dei vivi che si tendono
senza raggiungerci
sono come i rami degli alberi d’inverno.
Tutti gli uccelli tacciono.
Si sente solo il proprio passo
e il passo che il piede non ha ancora fatto
ma che farà.
Fermarsi e voltarsi
non serve. Si deve
andare.

Prendi in mano una candela
come nelle catacombe,
la piccola luce respira appena.
E tuttavia, quando hai camminato a lungo,
il miracolo non tarda,
perché il miracolo sempre accade,
e perché senza grazia
non possiamo vivere.

La candela brilla per il respiro libero del giorno
tu la spegni sorridendo
quando appari nel sole
e tra i giardini che fioriscono
la città è davanti a te,
e nella tua casa
la tavola è apparecchiata di bianco.
E i vivi che perderemo
e i morti che non possiamo perdere
spezzano per te il pane e ti porgono il vino –
e tu senti di nuovo la loro voce
vicinissima
al tuo cuore.

Nell’antro di Polifemo

Il gigante cieco torna a ghermirmi.
La sua mano conta le pecore.

Andarsene di nuovo
sotto la pancia dell’ariete.
Già una volta
sotto la mano che conta.

Quelli che se ne vanno
lasciano indietro tutto
quelli che se ne vanno
sotto la mano che conta.

Quelli che fuggono
dal gigante
non portano con sé null’altro
che la fuga.

(trad. di Anna Maria Curci)
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