Il Dubbio / 144
CONTAGIARE FA BENE?
di Enea Di Ianni
Siamo ancora provati, più o meno in tanti, dagli accadimenti relativi al Covid. In un modo o nell’altro, ognuno porta con sé i segni di una storia che, direttamente o indirettamente, lo ha coinvolto o, comunque, interessato. Abbiamo sempre avuto, nella vita di ogni giorno e davanti agli occhi, il senso e la prova del contagio: il passaggio, dall’uno all’altro, di stimoli, germi, abitudini, comportamenti che hanno finito, poi, con l ‘uniformare, in un senso o nell’altro, il nostro agire sociale.
Il senso del contagio vissuto nei giorni del Covid ha toccato, forse, la punta massima perché lo si è vissuto in forma invasiva e opprimente tant’è che si è vissuto e sofferto non solo per il contagio tra le persone, ma per anche per l’essersi ritrovati in mezzo ad un bombardamento non solo medico, ma anche socio-politico totale.
Dicevo del Covid per ricordare a me stesso che molti nostri comportamenti e modi di agire, prima di essere abitudini, prendono le mosse non sempre dal nostro interno, da come siamo o pensiamo di essere e da come riteniamo opportuno comportarci e agire, ma, un’infinità di volte, da come si comportano e agiscono “gli altri”.
La moda, la musica, la politica, l’arte, lo sport, le culture non sono soltanto espressioni della cosiddetta “creatività umana”, ma sorgono con la finalità di essere, anche e soprattutto, espressione del “sé” di ciascuno, di tanti “ciascuno” che, intenzionalmente o no, alla fine arrivano a modellare, a caratterizzare e a determinare il comportamento e il modo di pensare di tanti altri. Un esempio per tutti? La moda, maschile e femminile, che ci condiziona al punto tale per cui se sono in tanti che usano indossare il piumino piuttosto che il cappotto perché fa chic, prima o poi finiamo anche noi col lasciare in armadio il “Loden” che, pure, ci aveva ben rivestiti.
Ho avuto modo, la scorsa settimana, di incontrarmi con dei ragazzi e ragazze del penultimo anno di frequenza di un Liceo psico-pedagogico.
Ci siamo incontrati per riflettere, insieme, sul tema delle “Baby Gang” e porci, sempre insieme, la domanda se sia, oggi, possibile prevenire la loro formazione. E’ una classe mista: ragazze e ragazzi che, tra poco, saranno magari educatori e dovranno affrontare quel tema non soltanto come “riflessione”, ma operativamente nella gestione educativa della classe.
Il nostro incontro si è avviato intorno alle 10:30 e, intervallato dalla ricreazione, è proseguito fino a mezzogiorno.
Posizionati a semicerchio, ragazzi e ragazze mi sono sembrati interessati al tema e, sicuramente, curiosi di conoscere “la cura”, la formula pedagogica capace di fornire, per tempo, gli anticorpi necessari a far sì che “Bullismo” e “Baby gang” non s’abbiano a verificare.
Al suono della campanella della ricreazione, come si era convenuto, abbiamo interrotto la conversazione consentendo a ciascuno di noi la “pausa caffè”.
Un ad uno, ragazzi e ragazze, garbatamente e senza accalcarsi, prima di uscire in corridoio, hanno avuto un’ identica premura: recuperare il cellulare dal retro-cattedra e muoversi verso l’esterno dell’aula presi, tutti, da uno smanettare, impaziente e curioso, che li rendeva assenti l’uno agli altri e a qualsivoglia evento. Proprio osservandoli ho compreso ancor meglio – e “de visu” – quanto fosse già tardi per attivare percorsi di prevenzione per una, anzi per più generazioni ormai troppo in là nell’uso e abuso dello strumento digitale.
Mi sono fermato ad osservarli… Seppur con strumenti diversi (quasi tutti di ultima generazione!) e loro stessi, i ragazzi, diversi, l’uniformità che, un tempo, a scuola, era esteriormente assicurata dai grembiuli indossati, oggi la crea proprio lo strumento digitale. Nel corridoio erano fisicamente insieme, ma isolati, ciascuno col proprio marchingegno, e continuavano a smanettare tutti e con la stessa postura: dritti, in piedi, e col solo capo flesso in avanti. Solo il capo per poter seguire, con gli occhi, lo schermo.
Non c’era, nei loro visi, nessun cenno di movimento, nessuna smorfia o altro che potesse far intuire se quanto li teneva assorbiti fosse piacevole o repellente, comico o serioso, interessante o sciocco. Erano facce prive, tutte, di qualsivoglia espressività: tacevano gli occhi, erano amorfo i volti, impressionante la velocità delle dita sulla minuta tastiera.
Quand’era lontana questa ricreazione dalle nostre…!
Noi avevamo fame di sguardi, voglia di loquacità, desiderio di privato e tante, ma proprio tante, curiosità che s’affollavano in testa, ma che tenevamo segrete perché rimanessero solo nostre!
“Baby Gang: è possibile prevenirle?” Riprendiamo la conversazione subito dopo la ricreazione e quando i cellulari sono tornati silenti e tranquilli, sul pianale dietro la cattedra e, finalmente, spenti.
Certo che si possono prevenire le “baby gang”, ma non da soli e non con l’impegno della sola Scuola. Evito di fare discorsi che sanno di vuota professionalità e punto ad altro. Racconto le “Bande” di altra generazione, i sogni di altri adolescenti come loro, ma diversi da loro com’è giusto che sia. Finisco col parlare di una Scuola che ci ha insegnato a leggere, scrivere e far di conto, che ha tollerato, forse a malapena, le calcolatrici e che si è impegnata a farci crescere così come siamo. Parlo di una scuola che ci ha fatto anche soffrire, magari, per delle incomprensioni, per un brutto voto, ma non eludo di parlare della gioia vissuta, da studenti e insegnanti, ogni volta che quelle insufficienze venivano riparate appena in tempo per non finire in pagella e, poi, sul tavolo di casa, in famiglia.
Parlo di una Scuola che usava la penna, la carta, la lavagna, ma anche la relazione; una scuola che non “programmava” le interrogazioni perché sperava di prepararci alla vita, quella che ci avrebbe atteso oltre l’adolescenza e che non si sarebbe, di certo, preoccupata di “programmare” con noi gli accadimenti della quotidianità.
Quella Scuola, è vero, usava le belle, le buone e le brutte maniere; a volte sbagliava anche, ma era umana: era fatta da persone che non dovevano uniformarsi ai canoni dell’apparire, che sapevano di autenticità e cercavano di educarci all’umanità.
Era una scuola che aveva voglia di incontrare i genitori e non li temeva perché sapeva che dalla loro intesa sarebbe dipeso tanto del futuro del “Pierino”, alunno e figlio. Era una Scuola che non creava gruppi “WatsApp” tra insegnanti e genitori, ma preferiva metterci la faccia. Sempre! Forse anche per questo le “Baby Gang”, allora, erano ancora da venire perché il terreno non era dei più fertili per attecchire e vigeva, forte, la voglia di intesa tra Scuola, Famiglia e Società. E di quella voglia se ne parlava, se ne scriveva, ci si credeva e, soprattutto, ci si provava. Insieme!