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VOLERE O POTERE?

 

Il dubbio / 113

 VOLERE O POTERE?

di Enea Di Ianni

 Quante sono le cose che vorremmo fare o avere? Diverse e tante.  Quali quelle che possiamo fare o avere? Certamente molto meno di quelle volute. Il perché non è difficile da spiegare, ma difficilissimo da accettare. E quale dovrebbe e potrebbe essere il miglior modo per dar prova, prima di tutto a se stessi e poi anche al nostro prossimo, che l’accettazione non è assolutamente rassegnazione, ma vero equilibrio tra la dualità in cui si muove l’esistenza umana, equilibrio tra egoismo ed altruismo?

Diciamo pure che l’esistenza di un umano, di una coppia, di un gruppo, di un popolo si bilancia tra i desiderata le realizzazioni, tra l’idea e il fatto, tra il pensato e l’agito, tra il sognato e l’accaduto.

La contrapposizione tra volontà e possibilità ha sempre impegnato i viventi in una sorta di gara con se stessi. Gli esempi più eclatanti hanno del leggendario e, forse, proprio per questo ancora oggi certe gesta, certi accadimenti ci servono da esempi, da monito e, un pochino, continuano a lasciarci perplessi.

Il mare Icario ci rimanda ad Icaro, figlio di Dedalo. Prigionieri, padre e figlio, del mitico Re di Creta, Minosse, e desiderosi di tornare ad Atene, provano a farlo con l’ausilio di ali posticce, costruite da Dedalo con piume tenute insieme dalla cera. Il volo può riuscire, ma occorre essere accorti: non avvicinarsi troppo al sole che, col suo calore, potrebbe sciogliere la cera che tiene insieme il piumaggio.

E così accade. Icaro (giovane poco accorto o troppo sicuro di sé?) si lascia prendere dal desiderio di andare sempre più su, verso l’alto.

Si innalza troppo e il sole, come aveva predetto papà Dedalo,  scioglie la cera che tiene insieme le piume e lui, senza più l’ausilio delle ali e per gli effetti della legge di gravità, precipita giù, morendo nel mare che, da allora, prenderà il suo nome: Icario.

Anche Ulisse, noto per astuzia e ingegnosità, terminata la guerra di Troia, ha un desiderio che lo assilla: poter ascoltare, almeno una volta, il dolce canto delle Sirene, quel canto che “incanta”, imbambola, ammalia, vince ogni resistenza d’uomo. Tanti ci hanno provato, ma non sono più tornati indietro, si sono persi, ammaliati, tra le braccia delle Sirene. Ulisse è previdente: prova a realizzare il suo sogno puntando la rotta verso di loro,  ma lo fa con le dovute cautele. Chiede ai compagni di viaggio di essere legato, con corde robuste,  all’albero maestro della nave e di non slegarlo mai, neppure se li implorerà o minaccerà. Avuto l’assenso, fa in modo che essi non possano udire il canto ammaliatore delle Sirene, perciò  gli tappa ben bene le orecchie con della cera che poi, a tempo debito, provvederà lui stesso a rimuovere.

Dal comportamento di Ulisse traspare  il messaggio che non tutto ciò che si chiede, pur essendo meritevole di attenzione, debba poter essere soddisfatto, ma anche che tante volte non sentire può tornare molto utile a se stessi e agli altri.

I primi esempi di donne che indossavano i pantaloni non dettero fastidio solo agli uomini che, fino ad allora, erano i detentori del potere di indossare quell’indumento. Si capiva, e si comprende benissimo, che il problema vero non fosse il capo d’abbigliamento in sé, ma il significato che in esso si celava. Uomo, calzoni e comando erano, al tempo, una triade indiscutibile. A me pareva, e pare ancora, che fosse piuttosto un’ipocrita affermazione di falsità perché di donne energiche, letteralmente “coi calzoni” ce ne sono sempre state ed erano anche abili, oltre che intelligenti. Abili nel fare in modo che, dentro le mura domestiche, il marito “uomo” si convincesse a pensarla come loro volevano che pensasse e, alla fine, prima di lasciarli liberi di portare all’esterno il “proprio maturato pensiero”, con fare falsamente remissivo, li accompagnavano all’uscio  dicendosi d’accordo con lui, consapevoli che la decisione da lui “maturata” fosse quella giusta e che loro, “le mogli”, la consideravano veramente saggia!

C’era un problema allora, ed era quello di non poter gridare ai quattro venti che essere uomo o donna non voleva dire contenere in schemi preconcetti, rigidi e separati, le capacità e potenzialità dell’uno rispetto a quelle dell’altra e far capire che le potenzialità e le capacità appartengono a tutti e non solo ad una parte del “tutto”.

Per parità non si intende adeguamento alla norma uomo, bensì reale possibilità di pieno sviluppo e realizzazione per tutti gli esseri umani nella loro diversità” [1]

Parità di ruoli tra uomo e donna, integrazione delle differenze di genere. In che senso? Nel senso, come scrive Daniela Pazienza, di superamento delle tipizzazioni dei ruoli nel riconoscimento dei bisogni di ognuno. “Leggere nell’ottica di genere permette di valorizzare le differenze, di rilevare e accogliere i cambiamenti in atto” soprattutto riducendo i divari tra donne e uomini.

Come dire? Cogliere le differenze per valorizzarle e senza annullarle.[2]

Da quando gli uomini portavano i calzoni ad oggi di strada se n’è fatta; tante abitudini e pregiudizi di un tempo hanno lasciato il passo a convincimenti e comportamenti emancipati. Certo, si discute ancora su tanto e si dissente su molto, ma è normale perché si è cresciuti anche nell’uso della libertà: libertà di pensiero, di parola, di opere sempre, s’intende, nel rispetto delle regole. Sono cambiate anche le tipologie di famiglie: la patriarcale si è liquefatta, la famiglia numerosa è in estinzione e, un po’ dovunque, ci si interroga su come fare per ridar bimbi alla società. Uteri in affitto, adozioni, procreazioni, immigrazioni non riescono a riequilibrare il rapporto bimbi-anziani, nascite-decessi, presente-futuro. Ci stiamo davvero  abituando a tante novità che va, pian piano, scomparendo il senso della sorpresa.  Non ci sorprende più niente, o quasi. Sì, niente o quasi perché poi, alla fine, qualcosa può capitare che ci prenda impreparati.

Dopo la legittimazione delle convivenze tra persone dello stesso sesso, il comunemente detto “matrimonio omosesuale” o “egualitario”, con tanto di solenne cerimonia civile e diverse modalità esperite dalle stesse coppie per assaporare il piacere del crescere bimbi e bimbe, è stata comune l’impressione di trovarci, finalmente, nel pianeta del “possibile”, o almeno del “quasi tutto possibile”, dove volere è anche potere. Poi, una riflessione su quanto espressamente statuito dalla Corte europea, riequilibra il tutto: le convivenze tra persone dello stesso sesso” rientrano tra “le forme di manifestazione della vita privata, ma non della vita familiare”. Il diritto di sposarsi e formare una famiglia è esclusivo dell’uomo e della donna! (Art. 12 CEDU) .

Volere, no, non sempre è potere; però rimane importante. Davvero.

    [1] Alma SABATINI, Raccomandazioni per un uso non sessiste della lingua italiana, 1987;
     [2] Daniela PAZIENZA, “Parità e cultura di genere” UIL, 2022.

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