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Outdoor education, al di là della gabbia scolastica

Il Limite / 112

Outdoor education, al di là della gabbia scolastica

di Raniero Regni

Tempo di esami e sulle prime pagine dei giornali, assieme alle notizie sul caldo sempre più caldo, si parla di scuola. Un’istituzione importante, centrale nella società ma periferica nella considerazione sociale. La scuola viene presa a sinonimo di educazione ma questo non è del tutto vero. Se la scuola è un’istituzione, l’educazione è una funzione. Quest’ultima è, possiamo direi “eterna”, è connaturata all’essere umano, ovvero un essere che deve essere educato. La scuola è diventata una istituzione universale con la realizzazione degli stati moderni e poi a partire dalla rivoluzione industriale, seconda più che prima, quindi poco più di un secolo fa. I sistemi educativi sono nati assieme alla creazione di altre grandi istituzioni come la fabbrica, la burocrazia statale, l’esercito e così via. Applicando al mondo delle istituzioni artificiali quello che in molte specie viventi si chiama imprinting, si può dire che, come altre organizzazioni moderne, la scuola abbia subito una specie di formattazione legata al periodo in cui è nata come istituzione. Questo processo va sotto il nome di “fordismo scolastico”. Tutte le istituzioni nate alla fine dell’800 hanno assorbito la forma di razionalità allora più efficiente che era quella della catena di montaggio, ovvero della produzione in serie attraverso complesse forme di segmentazione del tempo, dello spazio, dei compiti. La scansione in ore e in classi divise per età, il sapere diviso per materie, una gerarchia delle discipline, fare tutti insieme le stesse cose nello stesso momento, un’enorme linea di produzione in serie di personalità. Una macchina organizzativa piramidale e di massa, con scarse o nulle possibilità di individualizzazione dell’apprendimento.

Tali sistemi hanno funzionato egregiamente finché hanno operato all’interno di una società industriale, producendo, nel caso della scuola, milioni di persone alfabetizzate, istruite e culturalmente preparate, disciplinando milioni di cittadini. Ma, da quando le società avanzate sono entrate nella fase post-industriale, i sistemi educativi hanno cominciato ad entrare in crisi, mostrandosi come inefficienti, rispetto ai mezzi usati, e inefficaci, rispetto agli scopi programmati, scontentando molti dei soggetti coinvolti, studenti, insegnati, la società nel suo insieme. La verità è che “come fabbriche, le scuole sono istituzioni particolari con confini netti che le separano dal mondo esterno”, scrive K. Robinson. E, osserva N. Harari, “la Rivoluzione industriale ci ha lasciato in eredità la teoria educativa della catena di montaggio…oggi non funziona più. Ma finora non abbiamo creato un’alternativa credibile”.

Se si guarda a tutte le esperienze educative più significative del secolo scorso ci si accorge che sono nate fuori o contro la scuola. Penso a Montessori e Don Milani, ma anche a P. Freire e J. Korczak, per non parlare di I. Illich, e a molti altri educatori e insegnanti che si sono guadagnati un posto nella storia della pedagogia recente cercando forme di didattica e di educazione fuori della gabbia organizzativa e paradigmatica scolastica. Oggi, anche a scuola, si parla di apprendimento autentico, di classe capovolta, di gamification, di classe senza zaino, ovvero di metodologie innovative che però hanno il difetto di dover sperimentare la loro efficacia sempre all’interno della struttura scolastica, combattendo, spesso senza successo, l’imprinting fordista di cui si è detto. Tutte queste sperimentazioni, che vengono messe in atto dai dirigenti e dagli insegnanti migliori, vanno nella direzione giusta, ma credo che non possano esprimere tutto il loro potenziale liberatorio dei processi di apprendimento perché stanno dentro una istituzione e un’organizzazione, anche nel senso fisico del termine. In un certo senso la struttura dell’aula è immodificabile e si impone, quasi fisicamente, anche alla mente dei bambini e dei giovani. Alcune delle esperienze più significative di sperimentazione credo che siano quelle che provano a forzare i limiti dell’aula. Rompono la tirannia delle mura scolastiche cercando di costruire un nuovo dialogo tra pedagogia e architettura, tra educazione e design, un nuovo rapporto tra educazione e natura, tra scuola e terzi paesaggi educativi, tra educazione e ecologia. Penso alle scuole nel bosco, all’educazione parentale, penso anche alle forme moderne di apprendistato di cui parla anche Gardner, penso a tutte le esperienze che fanno della natura un’insegnante, della città un’aula e del paesaggio un vero e proprio educatore.

L’idea che accomuna molte di queste esperienze e molte di queste teorie mi sembra che sia quella di sfruttare i potenziali che solo altri ambienti possiedono. Come abbiamo già scritto in un’altra occasione, la ricerca di altri luoghi dell’educazione, l’out door education, letteralmente fuori dalla porta della scuola e dell’aula, coincide anche con la necessità di forme di pensiero non convenzionale.

L’eterno dibattito sulla riforma della scuola, non solo di quella italiana ma di tutti i sistemi educativi degli stati moderni, sembra sempre più sterile. La necessità di mobilitare tutte le risorse cognitive e della personalità per far fronte ad una serie epocale di crisi (quella ambientale, quella climatica, quella della guerra, quella dell’intelligenza artificiale, quella del pensiero e della civiltà) che minacciano come non mai la condizione umana, mostrano la dimensione scolastica come sempre più inadeguata. Uscire dal limite della scuola per ritrovare una via verso il futuro.

 

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