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SILVIA PLATH “È meglio che ogni fibra si spezzi e vinca la furia”

Letteratura e Poesia / 111

È meglio che ogni fibra si spezzi e vinca la furia

(R.P.)

Silvia Plath è stata una poetessa straordinaria, il cui lavoro ha lasciato un’impronta indelebile nella letteratura contemporanea. La sua poesia caratterizzata da una profonda introspezione è la rivelazione delle emozioni più intime e spesso oscure. La sua vita tumultuosa e la sua morte prematura hanno aggiunto un’aura di mistero e tragica bellezza alla sua opera, rendendola ancora più affascinante per i lettori di tutto il mondo.

La scrittura di Silvia Plath intensa, cruda e spesso disturbante riesce a catturare attraverso le sue parole,  le esperienze universali dell’amore, del dolore e della disperazione. I suoi versi sono ricchi di immagini vivide, carichi di tensione emotiva espressi con un’abilità straordinaria nel rendere tangibili le emozioni più intangibili. La sua capacità di trasmettere il suo mondo interiore in modo così potente e prorompente ha avvinto i lettori in modo profondo e duraturo.

La poetessa ha affrontato temi complessi come la depressione, l’alienazione e la ricerca di identità. Il suo lavoro spesso intriso di un senso di disillusione nei confronti della società e della vita stessa, al contempo anche permeato da un desiderio intenso di trovare un senso e una bellezza nell’esistenza. Uno dei suoi capolavori più noti è “Campane a martello” (“The Bell Jar”), un romanzo semi-autobiografico che racconta la storia di una giovane donna alle prese con la sua identità e le sue battaglie interiori. Quest’opera è diventata un simbolo della condizione femminile e una pietra miliare nella letteratura femminista.

Io sono verticale (1961) 

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire) 

La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.

Monologo delle 3 del mattino

È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.

Papaveri a luglio 

Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.

Ariel 

Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.

(R.Puzzu)

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“Stare sdraiata è per me più naturale.

Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,

e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:

finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me”.

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“È meglio che ogni fibra si spezzi

e vinca la furia,

e il sangue vivo inzuppi

divano, tappeto, pavimento

e l’almanacco decorato con serpenti

testimone che tu sei

a un milione di verdi contee da qui,

che sedere muti, con questi spasmi

sotto stelle pungenti”.

 

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