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TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI?

Il Dubbio / 107

 

TORNARE INDIETRO PER ANDARE AVANTI?

di Enea Di Ianni

 Da che mondo è mondo c’è sempre stato chi sa e chi ancora non sa e, con essi, anche chi, presumendo di sapere, non si è mai preoccupato di verificare la veridicità del suo convincimento né ha mai dubitato di esso.

L’esperienza, però, insegna che chi non sa ha sempre la possibilità di apprendere perché il sapere non è un dono che si riceve bello e confezionato, incartato e infiocchettato a mo’ di pacco che quasi dispiace  disfarlo per come si presenta bello.

Il sapere è fortemente collegato con l’esperienza, ha a che fare con essa e se si presenta diverso tra gli umani è proprio perché sono differenti le esperienze dell’uno rispetto a quelle dell’altro.

Cos’è l’esperienza? Paolo Jedlowiski, sociologo, ne ha trattato ampiamente nella pubblicazione “Il sapere dell’esperienza”, edita nel 2008 e ristampata nel 2012. L’esperienza è  “ l’insieme di quello che viviamo e di quello che, del vissuto, ci resta”. Vivere una stessa esperienza non genera, in due persone diverse, lo stesso sapere proprio perché ciascuna di quelle persone porta in sé i “resti”, i segni di un vissuto e di come lo si è vissuto, resti e segni differenti data la diversità delle persone e che, recependo l’esperienza, generano e condizionano la sua coloritura.

Tante volte da bambini, nei nostri paesi, abbiamo assaporato il gusto di una fetta di pane intrisa di acqua e vino e cosparsa di zucchero. Raccontare il sapore di quella fetta di pane non è facile né riuscirebbe a rendere minimamente immaginabile quella gustosità che sapeva di paradisiaco, determinata dagli effetti generati dall’assaporare, insieme, il fresco del pane intriso d’acqua e il dolce della spolveratina di zucchero che poche gocce di vino rendevano inebriante.

Non è riproponibile, quell’esperienza, ai nostri giorni. Pur essendo stata una “dolcezza” allora, sarebbe un peccato mortale per l’alimentazione dei bimbi di oggi, almeno a parere degli alimentaristi.

I bimbi di ieri si sono nutriti non di ciò che volevano, ma di quello che c’era     addolcito dall’affetto  e dal buonsenso di allora. La scienza forse era scarsa, ma la coscienza era davvero tanta e proprio la coscienza suppliva alle tante carenze quotidiane e abituali.

Si viveva una molteplicità di esperienze di prima mano, esperienze non indotte e nemmeno tradotte in surrogati di vita, esperienze che avevano i colori e i sapori dell’esistenza e quei sapori erano autentici.

Le “ricette” dei medici “condotti” avevano sì a che fare con i medicinali, ma non disdegnavano la prescrizione di veri e propri menù alimentari lì dove la malattia diagnosticata si chiamava “fame”, il sintomo  denutrizione, la causa povertà e la cura poter mangiare.

Ricordo di aver letto, qualche anno fa, di un medico del napoletano, benestante, che non disdegnava, in quei casi davvero particolari, di prescrivere sulla ricetta l’alimento da acquistare e accompagnare la prescrizione con l’occorrente, in moneta,  per l’acquisto del rimedio.

Oggi non è più così o, almeno, non lo è nella maggioranza dei casi.

Cosa è cambiato? Sono cambiati i medici di base? Siamo cambiati noi, gli utenti? O cos’altro? Senz’altro cono cambiati i tempi, ma anche le incombenze che ricadono sugli ex medici condotti sono andate modificandosi sottraendo loro la risorsa “tempo di cura”, una risorsa che si faceva davvero psicologicamente importante al punto che il benessere di tanti dipendeva da una sorta di effetto terapeutico-taumaturgico del proprio medico che, dopo aver misurato la pressione arteriosa dei suoi “familiari” pazienti, ri-prescritte le abituali ricette conversando affabilmente, scrutava da vicino l’interno del bulbo oculare e, soddisfatto, congedava cordialmente il paziente rassicurandolo che stava benissimo e che i suoi timori erano solo frutto di un poco d’ansia. Nulla di più.

Cosa c’è che non va, oggi? Sono pochi i laureati in medicina? Mirano tutti al percorso ospedialiero e non alla medicina di base?  E perché, per l’accesso alle Facoltà di Medicina, si ricorre ancora al numero chiuso pensando che bastino quei tests d’accesso per avere il meglio del meglio? E perché non la selezione che avviene durante un sano percorso di studi universitari, tornando ad impegnare, seriamente, i docenti universitari nell’individuare abilità e propensioni o, come si suol dire, le capacità attitudinali degli studenti in sede di sessioni d’esame? Anche perché la scelta di un percorso  professionale non può dipendere solo dal volere dello studente o della famiglia dello studente né dall’abilità nel riuscire a rispondere, correttamente, ad un certo numero di quesiti. Contano, più dei quiz, le capacità e la sensibilità che, man mano, vanno evidenziandosi oggettivamente durante un percorso di formazione universitaria. Certo è che laureare “medici di base” oggi vuol dire, prima di tutto, ridefinirne il ruolo e non dimenticare “la grande bellezza” della sua figura.

“…La grande bellezza del mio lavoro di medico di base è tutta nella sorpresa e nella creatività del sistema in cui lavoro. ……Anche io potrei chiudere la giornata con la mitica affermazione: Ho visto cose che voi umani… Devo solo avere l’accortezza di non restare a bocca aperta e catatonico per svariati minuti davanti a richieste dei miei pazienti ….

E’ così che l’ultima circolare ministeriale impone l’uso delle mascherine in ambienti dove potrebbero esserci soggetti fragili ma lascia i medici di base nel limbo delle possibilità dove ognuno possa fare come gli pare…”

Amore per la democrazia?

“… Ed è così che la paziente che viene a chiedermi il certificato per andare in palestra, richiede una indagine più vicina al lavoro del RIS dei Carabinieri ….per stabilire in quale categoria di impegno cardiovascolare inserirla….. Il certificato medico sportivo diventa un lavoro di alta sartoria nel sul paziente: età, patologie, tipologia sportiva, tesseramento Coni, società parallele, enti sportivi amatoriali, circolo strapaesano di bocce, zumba e nuoto sincronizzato…” (Enzo Bozza, Medico di base a Vodo e Borca di Cadore – BL -)

Di cosa difettiamo noi italiani? Non certo del coraggio di osare visto che siamo un popolo di poeti, poeti e navigatori; neppure della capacità di critica spicciola visto il bombardamento che si scatena quotidianamente nei social su tutto e su tutti . Forse, dico forse, il coraggio di ammettere che “errare umanum est” e che, ogni tanto, voltarsi indietro non vuol dire rinunciare ad andare avanti, ma solo accertarsi che il sentiero che si sta percorrendo sia quello giusto, quello che si voleva percorrere e che, al momento della scelta, ci sembrava percorre.

Puo’ succedere, come scrive il poeta Robert Frost, il preferito da John Fitgerald Kennedy, che un percorso, un progetto, una ipotesi di organizzazione possa sembrarci, al momento della scelta, quella ottimale. Non è un reato preferirla e adottarla, semmai lo è abbandonarla a se stessa  e fingere di non accorgersi, malgrado l’evidenza, che non funziona più. [1]

In quel caso i latini avrebbero detto che sbagliare è umano, ma perseverare è diabolico. O no?

 

[1]Divergevano due strade in un bosco ingiallito, / e spiacente di non poter fare / entrambe uno restando, a lungo mi fermai / una di esse finché potevo scrutando / là dove in mezzo agli arbusti svoltava. / Poi presi l’altra così com’era / che aveva forse i titoli migliori, / perché era erbosa e non portava segni; / benché, in fondo, il passar della gente / le avesse invero segnate più o meno lo stesso…( R. Frost, “La strada non presa”)

 

 

 

 

 

 

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