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FEDE O CURIOSITA’?

Il Dubbio / 105

FEDE O CURIOSITA’?

di Enea Di Ianni 

Il tempo ha dei pregi e dei limiti. I pregi sono dati dalle esperienze che consente di vivere, dalle conoscenze che si vanno aquisendo e sommando, dai cambiamenti che opera su ciascuno di noi e dei quali, spesso, non ne abbiamo coscienza immediata.

Succede, così, che continuiamo a crederci giovincelli quando la gioventù è trascorsa e, a volte, facciamo addirittura bizze, s travaganze da bimbi e invece dovremmo tenere a mente che siamo e ci si vede cresciuti. Almeno fisicamente.

I limiti sono quelli che ciascuno ricorda a se stesso nei momenti cosiddetti “particolari” che la vita riserva e che, quando si presentano, non ci è dato gingillarci, indugiare o, peggio, attendersi dagli altri qualcosa che agli altri non compete. Sarebbe stato davvero bello se la gestione del tempo, il suo scorrere e trascorrere, avesse potuto avere il pulsante con la scritta Rew, riavvolgere, tornare indietro di quel tanto che ci avrebbe permesso di correggere una stupidata,  di evitare quella brutta espressione, quel gesto villano. Insomma quanto ha determinato che  si guastasse per sempre una buona occasione per continuare un’amicizia particolare, un rapporto significativo, un amore. Comunque una storia di vita.

Il “senno di poi” è davvero diverso da quello di “prima”, ma non si tratta solamente di senno, si tratta di ciascuno di noi come persona, come essere umano pensante e, proprio per il pensare, cangiante.

Non lo scopriamo oggi e non lo scopriamo noi: l’hanno già detto altri.

Ogni tanto qualcuno riflette, serioso, e si convince che, se a diciott’anni si potesse avere il senno di un cinquantenne, forse…  Riflette e pensa, in silenzio, a quella giovinezza vista con gli occhi e la mente di un cinquantenne. Pare di poterla migliorare e correggere davvero modificando fatti e pensieri di quei trascorsi diciott’anni.  Sì, pare di poterla rielaborare diversamente a distanza di anni, purtroppo, però, solo con l’immaginazione. Anche a diciott’anni abbiamo provato a immaginarci come saremmo stati a cinquant’anni e avevamo, allora, dalla nostra parte la possibilità  di mettere in campo tutto l’occorrente per realizzarci proprio come stavamo immaginandoci.

Eravamo sulla buona strada, c’erano i propositi, le possibilità, le opportunità. Che è stato, poi? Sicuramente ci hanno “distratto” e “dirottato” le curiosità che si sono susseguite e che, fascinose come possono esserlo con chi è giovane, ci hanno portato altrove.

Uno degli atteggiamenti umani che da solo può essere artefice determinante del nostro andare, del nostro tendere sempre a qualcos’altro e ci fa spostare, di volta in volta più in là, la meta , è la curiosità. Qualcuno la chiama anche “insoddisfazione”, qualche altro “desiderio”; Dante  la vedeva come voglia di “seguir virtute e canoscenza”.

Ci stanno tutte queste ragioni: c’è la curiosità, l’insoddisfazione e, senz’altro, il desiderio di migliorarsi nell’apprendere e nell’essere virtuoso, dabbene.

Chi passa a vivere dal paese alla città prova, inizialmente,  una sensazione di piccolezza e di imperizia di fronte al “nuovo” che, piccola o grande che sia,  la città mostra: il traffico, le vetrine, la gente, le campane.

Il traffico ti coglie impreparato, le vetrine ti incantano, la gente ti ignora, le campane ti confondono. Sì, le campane ti confondono perché sono tante come tante sono le  chiese in città e tutte, in contemporanea, rintoccano al mattutino, a mezzogiorno, al vespero. Tante ti chiamano alla Messa alla stessa ora, soprattutto la domenica e nei giorni di festa.

In paese ce n’era una sola di chiesa perché una sola era la parrocchia e quando, la domenica, chiamava a raccolta i fedeli, lo faceva solo due volte: al mattino presto e alle undici, in concomitanza con gli orari delle messe domenicali.

Quella del mattino, alle sette, era la “Messa piccola”, contrapposta a quella “grande” delle undici,  “messa cantata” per sottolineare la presenza del coro. Altro segno di distinzione era la durata: veloce quella delle sette (25-30 minuti),  lunga quella delle undici (un’ora e mezzo) anche perché, oltre ai canti, comprendeva “la predica solenne”, l’Omelia odierna.

La funzione di entrambe le Messe era identica: vivere momenti di preghiera con la comunità parrocchiale. Cambiava, però, per i fedeli, il significato socio-mondano che le due Messe assumevano. La “piccola” era la preferita dalle madri di famiglia e dalle donne anziane, entrambe prese ed attese da incombenze varie e inderogabili. Si notavano  qualche uomo  e pochissime giovinette. La “grande” e solenne, era la preferita  da quanti amavano essere notati e non disdegnavano l’ossequio per il ruolo sociale che rivestivano. C’erano, perciò, professionisti e cariche pubbliche con al braccio signore eleganti e vogliose d’essere notate e ammirate non foss’altro che per l’abbigliamento. E poi c’era, come in passerella, tanta gioventù femminile che si offriva, settimanalmente, allo sguardo, interessato e voglioso, di giovanotti, assetati d’amore, che affollavano, insieme ad uomini politicamente non di “sinistra”, il settore “solo maschi”.

Questo accadeva, di norma, in paese nelle domeniche e negli altri giorni di festa. Era, come si suol dire, la regola; però accadeva anche – di rado, ma accadeva! -, che qualche giovane, “abitué” della “Messa grande”, facesse pacifica irruzione in chiesa durante la “Messa piccola”.

Raramente lo faceva da solo, ma sempre rigorosamente accompagnato a pochi altri giovani e con un motivo ben preciso: soddisfare la curiosità accesa da un bisbiglio captato, per caso (?), e che accennava  alla bellezza riservata di una giovine donna avvezza ad andare a Messa. Ciascuno di quei giovani, desti anzitempo, si sarebbe, volentieri, lasciato andare al sonno tra i banchi semivuoti della chiesa, ma non lo fecero perché li teneva svegli dapprima la curiosità di scoprire l’ ”innominata” e, una volta scoperta, le altre, tante, curiosità che si susseguivano accendendo fantasie, progetti, stratagemmi.

E tutto questo in chiesa, in una piccola chiesa, di buon mattino e durante una funzione religiosa contenuta nell’essenziale. A chi il merito?

Alla fede? Alla curiosità? Ad entrambe?

Intanto per mettere in moto l’essere umano serve “curiosità”, tanta, sempre e verso tutte le direzioni. Una curiosità tira l’altra e il cammino si fa davvero lungo e a più direzioni. Ogni tanto può esserci scoramento, voglia di resa, spinta a dichiarare “forfait”.

E’ allora che entra in gioco la “fede”, la propria e, se non basta, quella di chi ci è vicino. A che serve? A riprendere fiato, vigore, speranza.

Quanto fiato? Quanto vigore? Quanta speranza?

Quel tanto che è sufficiente a riaccendere una nuova curiosità. Magari può bastare un altro bisbiglio.

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