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SCOPRIRE PER RISCOPRIRE?

Il Dubbio / 101

 SCOPRIRE PER RISCOPRIRE?

di Enea Di Inni 

Se provassimo, così, per gioco, ad elencare le tante ùattività umane nel tentativo di riuscire ad individuare quelle che più sono fascinose, particolari, atipiche, difficilmente perverremo alla compilazione, condivisa, di una lista graduata.

Già quando ci impegniamo nella scelta dei percorsi di formazione da suggerire ai nostri figli entriamo, silenziosamente, in conflitto con noi stessi, col nostro compagno o la nostra compagna, con gli insegnanti dei nostri figli e con gli stessi nostri figli.

Non è una contrapposizione voluta. E’ difficile confrontare il pastore col grande chirurgo, il contadino con l’imprenditore di grido, il ruspista con l’ingegnere, perché cozzano fra loro parametri diversi che non hanno nulla a che fare con la persona, con l’essere umano com’è naturalmente, bensì con il cliché sociale di riferimento,  un dato pesante.

Sappiamo tutti che il pastore è colui o colei che si prende cura del gregge, di un insieme di animali più o meno della stessa specie, in genere pecore e capre, che vanno accuditi continuamente perché possano alimentarsi, crescere, riprodursi e rifornirci, giornalmente, di latte, lana, carne. Se abbiamo avuto il piacere e la fortuna di incrociarlo nel suo percorso col gregge, ci siamo accorti del suo essere un tantino schivo e solitario, fors’anche timido e silenzioso.   Si esprime spesso con fischi e altri suoni vocali particolari  che toccano anzitutto il gregge, comunicano con esso e, in qualche modo, lo frenano o sollecitano.

Intorno a lui quasi sempre opera un terzetto o quartetto di cani a coadiuvarlo, energicamente, nel mantenere controllato e in gruppo l’incedere degli animali,  nel bloccarli all’occorrenza o indirizzarli al pascolo.

Ci commuove, il pastore, ma non lo invidiamo perché gli ideali che il nostro sociale ci propina sono personaggi riveriti, ammirati, profumati, collocati a livelldi vertice. Così, quando al “pezzo grosso” capita di avvistare,  tra il verde dei campi che costeggiano le nostre strade di montagna, “morre” di pecore, brucanti senza fretta, si fa sollecita la sua attenzione e la premura di allertare la famigliola in auto per additare quella rarità che l’occhio umano del pastore non trascura e i fedeli cani sorvegliano. I ragazzi impazziscono, fanno domande, tante domande sulle pecore, sulle capre, sui cani, sul pastore, sui colori del prato. Ecco, forse solo allora e magari per un brevissimo lasso di tempo, il personaggio, senza volerlo, prova ad immaginare d’essere lui quel pastore tanto gli appare invitante quella quiete campestre, riposante quel verde e soddisfatto quell’uomo che intaglia, quasi a perditempo, il suo bastone di giunco. Vorrebbe essere al suo posto, potersi rilassare e nutrirsi di quel silenzio, di quel verde e di quel cielo stranamente terso. Vorrebbe, ma non può. Il cellulare squilla e la voce anonima della segreteria gli ricorda la conferma, per il giorno dopo, del Consiglio di amministrazione o altra importante convention.

Il piede, d’impulso, pigia sull’acceleratore e fa schizzare via l’auto stimolando, nel silenzioso pastore, la tacita riflessione sul perché tanta  gente continui ad andare, sempre, così di fretta!

C’è un’età, bellissima, in cui si avvia e incalza la scoperta del mondo, un mondo a tutto tondo, dove ci sono umani e animali, vegetali e minerali, colori e sapori, cose normali e cose strane, cose calde e cose fredde, sapori gradevoli e sgradevoli. E’ l’età più bella della vita, diranno poi gli studiosi e l’andiamo dicendo anche noi, i già cresciuti. Ne siamo convinti, lo ripetiamo e ce lo ripetiamo per poi dimenticarcelo subito dopo, quando, invece, tornerebbe utile tenerlo bene a mente.

Le persone più fortunate in questo mondo sono i genitori anche se non sempre se ne accorgono, perché hanno l’occasione di vivere l’infanzia dei loro figli ed essere fortemente contamida quella vita, proprio mentre essi stessi, senza volerlo,  vanno contaminando i piccoli.

La curiosità dei nostri figli è la stessa che avevamo noi da bambini, i loro “perché” insistenti e ripetitivi sono come i nostri. Loro, i bambini, vogliono toccare tutto e sempre, come facevamo noi. Si muovono con la stessa iniziale incertezza che, poi, si fa destrezza, abilità, speditezza. Non gli basta la casa, perciò chiedono di uscire, di andare fuori, per la via, ai giardini, ovunque per incontrare altri bambini. Altri “io” per sentirsi simili e diversi da loro, per associarsi e dissociarsi da loro, per bisticciare e riappacificarsi.

E qui che si avvia la nostra “scoperta” che sa anche di “riscoperta”. Cominciano a tornarci in mente le cose che non potevamo toccare, che non erano, poi,  tante perché nelle nostre case non c’erano ninnoli, gingilli, pezzi d’arte e di valore. C’era l’essenziale e, qualche volta, forse pure un po’ meno.

C’erano un tavolo, delle sedie, pochi piatti e bicchieri, c’era il lavello con un “bicchierone” d’uso comune. Non mancavano il camino con la pentola appesa alla catena, il soffietto, la paletta. C’era la radio, magari col giradischi, e poi, per i più fortunati, anche la “televisione”, un televisore  rigorosamente gestito dal capo famiglia. Così, mentre “riscopriamo” le nostre esperienze infantili, “scopriamo” che non è più facile il mondo che accoglie i nostri figli. E’ un mondo che, all’apparenza, li coccola, li indora, ma poi, di fatto, li isola e li trascura pur se li usa.

E allora che si apprezza, che si scopre e riscopre,  davvero come “oasi” di vita per i bambini dai 2 ai 5 anni la scuola dell’infanzia, la “scolettanata come “Scuola materna”, cioè dal sapore affettivo-premuroso proprio dell’essere “mater”.

Lì, in quegli spazi che sanno di colori festosi e vivacità di giochi, al chiuso e all’aperto, aleggia il respiro della comunità, di una “famiglia” più grande che sa lasciarti fare, ma ti chiede anche di fare, che ti accoglie abbracciandoti, ma, quando è il caso,  ti rimprovera senza urlare. Ti lascia correre, è vero, ma spesso ti chiede di fermarti per aspettare l’amichetto che corre piano; ti ascolta volentieri e ti parla, ma qualche volta ti ordina anche di tacere. Ti coccola e rimprovera carezzandoti piano.

E’ un luogo dove si canta, si colora, si pasticcia, si cercano lucertole, si contano fiori, si raccolgono foglie e sassolini, si fanno lavoretti, si gioca cercando qualcosa: a volte con tutto, a volte con niente. Si ascoltano fiabe e si sogna, magicamente, d’essere, per un momento,  protagonisti delle stesse.

Anche lì, come a casa, mentre i bimbi crescono “scoprendo”, maestri e maestre, collaboratori e collaboratrici, genitori e nonni “riscoprono” tanto di se stessi  che pareva non esserci  e invece, sorprendentemente, c’è ancora.

Era solo coperto della patina del tempo ed un poco appannato per il timore di poter apparire demodé.

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