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CANTA, CHE TI PASSA?

Il Dubbio / 98

 CANTA, CHE TI PASSA?

di Enea DI Ianni

Mercoledì 8 marzo 2023, Festa della Donna. Sottolineando sempre, e ancora una volta, che non può limitarsi ad una giornata la riconoscenza e l’apprezzamento tutto al femminile, mi piace, in questa ricorrenza, dedicare un momento di riflessione a quelle donne che, nel silenzio più assordante, hanno trascorso tanta parte della loro esistenza di solitudine affettiva in luoghi in cui l’emigrazione degli uomini sembrava dovesse essere una promessa di benessere e d’amore duraturo e invece non lo fu.

Non affrontavano il mare su barconi improvvisati, i nostri nonni, ma la stiva del bastimento che li aveva in grembo, per lunghi giorni e lunghe notti, si era rivelata luogo avvilente di detenzione incolpevole che, oltre a separarli dagli ambienti luminosi di coperta, gli centellinava anche i minuti per le boccate d’aria dai suoi oblò.

In tanti, speranzosi, andarono. Una volta arrivati a destinazione, non pochi si persero nelle meraviglie del nuovo mondo, in metropoli, già da allora, ricche di fascino e di attrattive. Molti resistettero alle “tentazioni” e si tennero legati  per sempre ai propri cari in paese. Nelle famiglie, orfane dell’uomo di casa, la donna dovette convivere con le difficoltà più disparate e mai davvero elencate tutte, anzi spesso sottaciute e murate nell’intimo, in un angolo dove si fa tacere tutto il subìto che il cuore rigetta, ma  la mente  conserva.

Le “vedove bianche” di Frattura di Scanno, e tante altre ancora ad esse assimilabili per vicende similari, meriterebbero, oggi, un bagno di gloria perché vittime incolpevoli di una stagione in cui l’uomo “era” e lei, la donna, doveva ancora “essere” almeno come riconoscimento pieno di sacrosanti  diritti  perché, in quanto a doveri, ne aveva fin troppo.

Nei caldi pomeriggi estivi, sul tardi, tornavano a rivivere gli ombreggiati “vicinati” e le “cimmose[1] si riempivano, in ogni ordine di posti, di donne, giovani e meno giovani, offrendo vedute dall’alto e vivacizzandosi col parlare di tutte che, in un attimo, si faceva concorrente col frinire delle cicale. Si erano levate di buon’ora quelle donne perché avevano bisogno di sostenere le loro famiglie e non potevano permettersi pause lavorative.

Non sempre, ma spesso, quel relax ciarliero per molte di esse significava sola opportunità per dare sfogo ad un rancore mai sopito, misto di amore e delusione, e intanto, senza dirlo, cercare sostegno  in quel consesso senza il quale la determinazione avrebbe rischiato di fiaccarsi.

Abbracciate da reciproca solidarietà, il calar della sera si faceva meno triste e la solitudine notturna meno lunga.

Servivano a tutte quegli sfoghi pomeridiani, anche alle giovanissime e alle mogli più fortunate, quelle non abbandonate dai mariti.  Le giovanissime si preparavano ad “aprire gli occhi”, come si diceva allora, a non farsi “accecare” dalle apparenze e le felicemente sposate a non rilassarsi, a non “dormire sulla lana” (che pure era gran cosa rispetto a chi dormiva sul pagliericcio), ma a rimanere all’erta: attente e vigili per conservarsi il proprio uomo.

Per chi non aveva più il marito o il compagno, conclusa la giornata lavorativa era la notte il momento davvero più difficile.

Nel silenzio di una povera casa, il pensiero, da solo, andava, senza mai posarsi, e sempre tornava a riproporre le immagini dei momenti belli, le parole d’amore, gli sguardi timidi anche se insistenti e ricorrenti.

E poi risuonavano le promesse, quelle scambiate nell’ultimo abbraccio, l’abbraccio che doveva essere l’inizio di una nuova vita ed era stato, invece, l’ultimo atto di una storia di vita e d’amore.

Quando, a tarda notte, il sonno arrivava, a lenire la sofferenza, c’era  sempre un viso sereno di bimbo o di bimba, frutto d’amore e, ora, ragione di vita, della vita di una donna sola.

L’alba sarebbe arrivata e avrebbe trovato un’altra donna: una mamma determinata a lottare per dare un avvenire a quel bimbo o a quella bimba.

Sì, avrebbe lottato con tutta se stessa, contro tutto e tutti, com’è nella natura di ogni madre, di ogni donna. Era per darsi coraggio che intonava un canto, quello che altri le aveva dedicato e cantato tra il grano, nella stagione della mietitura. Lo  cantava da dentro, lei, solo col pensiero, vergognosa di farsi sentire e, intanto, il viso s’accendeva del un  barlume di sorriso:

Amami, bella mia, non sconfidarti, / giacché soffro per te mille sconforti;

non posso far di men di non amarti, / solo pensando a te son quasi morto.

Fedele io ti sarò per ogni parte, / costante io ti sarò fino alla morte.

Per due cose il mio cor potrà lasciarti: / per potenza del Cielo o per la morte.

Parto da questo loco, e sento ardore,  / ti lascerò per mano al Dio d’amore!”

E dopo aver cantato col pensiero, veloce il dorso della mano asciuga gli occhi. Il gruppo delle amiche ha già intonato “Vola vola…”. Al ritornello è pronta: entra decisa con la seconda voce:“… e vola lu pavone, se tiè lu core bbone mò fàmmece arrepruvà!…”

Mi piace pensare che  il canto abbia sempre accompagnato e dato vigore e sostegno alle donne, alle nostre donne abruzzesi, anche alle meno fortunate. Cantando si sono avvicinate e sentite unite, non si sono perse; cantando si sono sfogate traducendo in vita i sogni e in forza le sofferenze.

Lo hanno fatto indipendentemente dall’età, dalla condizione e in ogni situazione; lo hanno fatto cullando bimbi, festeggiando connubi, salutando dipartite. Lo hanno fatto sempre, con naturalezza e dolcezza. contagiando e incoraggiando noi, i maschietti di ieri, di oggi e di domani.

La scrittrice Macdonnel, visitando il nostro Abruzzo, ne rimane ammirata e scrive: “La cantante più dolce che io abbia mai ascoltato è stata una fanciulla di quindici anni il cui lavoro consisteva nel recare sulla testa dei mattoni da portare ai muratori che stavano costruendo una villa sul litorale adriatico. Il suo compagno era un ragazzo più piccolo di lei di un paio d’anni: i due andavano avanti e indietro cantando una dolce melodia sotto quel peso.”

“Chapeau” alle donne!

 [1] Scalinate esterne, in pietra, per accedere nelle case di paese

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