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PROTAGONISTI O SPETTATORI?

Il Dubbio / 97

 PROTAGONISTI O SPETTATORI?

di Enea Di Ianni

Solo qualche anno fa, a Sulmona, la compagnia teatrale “I Buonavoglia” portò sulla scena del teatro “Maria Caniglia” la rivista “Piazza Venti”.

Piazza Venti” stava, e sta, per Piazza XX Settembre, la centrale piazza della Sulmona storica, luogo prescelto dai nobili di un tempo, quelli che erano soliti levarsi dal letto intorno alle dieci, e che oggi ospita quella dove il monumento di Ovidio Nasone, il sommo poeta latino.

La “rivista” momenti di vita dagli anni 70 al terremoto del  2009.

Una sorta di “Amarcord”  tra amici, tanto per sottolineare, non senza un pizzico di sana nostalgia, qualcosa che pure avevamo avuto il piacere di godere e che, purtroppo, nel tempo, si era andato inesorabilmente dissolvendo. Per capirci volevano essere dei “fermo immagine” sulla Sulmona che c’era e che è rimasta, oggi, un ricordo. Un bel ricordo.

Dopo il terremoto del 2009, quello che noi dell’aquilano non dimenticheremo mai, così, quasi per gioco, nel tempo libero presi ad annotare ricordi che muovevano più o meno dagli anni 60, quelli coincidenti, per me,  con la frequenza delle scuole superiori.

Era successo che il terremoto del 6 aprile 2009 non ci aveva solo turbato, no: ci aveva tolto, di punto in bianco, tante certezze rendendo dominante un diffuso timore, un’ansia che s’andava irrobustendo nelle ore serali, quando il buio scendeva tutt’intorno e ci si ritrovava tra le mura di casa, ognuno nella propria abitazione, con la crescente sensazione che le pareti domestiche potessero, da un momento all’altro, tornare a scuotersi e scuoterci. Il terremoto del 2009 ci aveva sorpresi nel sonno e lo aveva fatto in modo subdolo e anche un poco cinico, con un primo scuotimento, forte, che ci aveva  svegliato dal sonno e allertati come il suono di una campanella agitata, all’improvviso e con forza, per zittirci e renderci pronti e attenti a ciò che sta per accadere. Così la notte di quel 6 aprile: era arrivata di colpo, e inattesa, la tritticata che aveva interrotto il sonno, sufficiente a lasciarmi il tempo per dire a me stesso, col pensiero, che stavo andando verso la fine dei miei giorni e che mai più avrei rivisto i miei cari. Appena e solo quel pensiero e, di nuovo, il protagonista fu lui, il sisma, con scricchiolii crescenti, insistenti e più robusti e la paura, tanta, chiusa dentro, ad immobilizzare fisico e mente.

Al primo tacere di quel sibilo invisibile, si cercò la fuga all’aperto, disordinatamente, sorretti e guidati solo dall’istinto di sopravvivenza  che ci spingeva verso spazi aperti, larghi, dove le case diradavano e altri, come noi, si portavano per tranquillizzarsi e tranquillizzarci. Avvertivamo, dentro, la spinta a non fermarci, a muoverci continuamente come per tentare di andare,  andare via da dove si era appena arrivati e senza la minima consapevolezza del luogo sicuro per rimanerci. Si aveva, in comune, la sensazione che l’epicentro  del sisma avesse coinciso con la propria abitazione. I giorni a seguire furono segnati da una sorta di torpore cosciente, quello che ti lascia un sedativo la prima volta che lo assumi: senti, vedi, pensi e ti muovi, ma al rallentatore: ne sei cosciente e non puoi farci niente. Quasi niente perché, e ce la metti tutta, ti ostini a rimanere vigile almeno quel poco che ti occorre per non lasciarti cogliere dall’invisibile ritorno del “mostro ”. Cominciai in quei giorni a buttar giù qualcosa che potesse, non  dico rasserenarmi, ma almeno allentare l’assillo del terremoto e, magari , chetarmi un poco.

Così, rimanendo all’aperto, provai a rivedere, col pensiero, la Sulmona che mi aveva accolto innamorandomi del clima, dei colori, degli odori e dei sapori che caratterizzavano, differentemente, un vicolo da un altro, un luogo da un altro luogo. Soffermandomi subito oltre l’arco di Porta Napoli, fu immediato tornare ad immaginare e risentire il suono della tromba

che dava il via alla libera uscita dei giovani di leva, quelli che, seralmente si riversavano, a frotte, su Corso Ovidio vivacizzandolo, per qualche ora, col loro andare su e giù ripetutamente.A quell’andirivieni di giovani militari faceva eco il passeggio serale di tante ragazze, apparentemente restìe alle avances di quei giovani, che pure provocavano perché segretamente prese dal fascino, e non solo,  di quelle divise. Parallelamente, non viste,  mamme e comari, complici ambigue di tanti amori nascenti, cercavano di appurare qualcosa spiando dagli incroci dei tanti vicoletti che s’aprono sul Corso. Spiavano, è vero, ma erano pronte a giurare di trovarsi lì solo “casualmente”. Nel 2004 la legge Martino abolisce il servizio di leva obbligatorio e apre allo svuotamento delle caserme militari. Senza militari tace il suono della libera uscita serale, si svuota Corso Ovidio, finisce l’affollamento dei cinema, di pizzerie e locali nel centro, quelli preferiti  per le bevute tra commilitoni. Finiscono gli amoreggiamenti tra militari e ragazze nostrane,  perdono di senso gli appostamenti di mamme e comari curiose e cessa anche il “passar della Ronda”. L’ “Amarcord”, però, non s’arresta e il tempo continua ad incedere per niente benevolo. Così, quando il sulmonese emigrato negli anni 70-80 torna, benestante e con la sua donna,  nella città natale per viverci da pensionato, da subito è assillato dalla voglia struggente di ricercare e ritrovare quel “piccolo mondo antico” per anni serbato nel cuore. Qualcuno glielo aveva scritto di quanto fosse diventata bella la sua città e lo aveva anche informato delle tante industrie sorte dall’oggi al domani, delle fabbriche che avevano cancellato i vigneti, degli impieghi alle Poste e in Ferrovia che avevano sottratto braccia e gioventù all’agricoltura. Gli avevano anche scritto del benessere che si respirava e lui, all’estero, si erra sentito soddisfatto e solidale, felice per quelle “toccate” di fortuna. Il primo incontro con l’amico del cuore è l’occasione per soddisfare le tante curiosità che si porta dentro e, incalzando, sgrana una ad una le domande. Per ogni domanda, però, la risposta è la stessa: “Non c’è più !”

Non c’è più la Discoteca, la Standa, il cinema Pacifico e il Balilla, la  pasticceria Ciccozzi, il ristorante “Da Nicola”… Anche le tante fabbriche sono tutte “svampate”, finite. Se ancora c’è chi ama raggiungerci in treno, fuori dalla Stazione, trolley alla mano, vive la sorpresa, spiacevole, di non trovare mezzo pubblico e neppure  servizio di taxi. E ‘perplesso l’emigrato. E pensare che quando lui è partito c’erano Bus e Taxi, perfino la carrozzella col cavallo. In un moto di sconforto gli verrebbe  da domandare, e domandarsi, se  Ovidio ci sia ancora.  C’è ancora?  – Sì, amico mio, Ovidio c’è ancora, ma è triste, credimi, davvero tanto triste e solo. E’ solo perché non c’è più il ristorante ”Italia”, quello che chiamavamo “Da Nicola”…  E’ solo perché non c’è più il “Gran Caffè”, quello immortalato nel film “Parenti serpenti”…  E’ solo, ancor di più, perché dal 2009 è venuto improvvisamente a mancargli il vociare festoso di studenti e studentesse del “suo”  Liceo-Ginnasio! Gli mancano, quei ragazzi, dal lunedì al sabato, all’entrata e all’uscita da scuola, ma anche la domenica, nella  tarda mattinata e di pomeriggio, quando erano soliti confondersi con gli abitués  adulti, quelli che parlano e sanno di tutto: del lavoro che manca, del lavoro che stanca, della neve – se c’è – o del perché non ce n’è.  Gli manca, ad Ovidio,  il conversare pacato e, a volte, irruento di quei giovincelli, il timido loro carezzarsi e, soprattutto, quell’ amoreggiare indeciso e inesperto che tanto a lui, il grande dell’ ”ars amatoria”, rendeva odiosa la bronzea corazza che lo immobilizzava costringendolo, suo malgrado, a spectare et non tangere”, a guardare e basta. Sempre e solo spettatori?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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