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LE VOCI “DI DENTRO” O “DI FUORI”?

Il Dubbio / 93

                      LE VOCI “DI DENTRO” O “DI FUORI”?

di Enea Di Ianni

Da ragazzo, quando nei piccoli paesi parte della vita diurna, soprattutto nella bella stagione, si svolgeva all’aperto, nei vicinati ovvero nei vicoli. stradine antistanti le singole abitazioni, ogni tanto, giocando, capitava di far cadere l’attenzione su spezzoni di discorsi tra donne, giovani e meno giovani. Arrivavano, come lampi, espressioni verbali spesso insignificanti, prive – sempre per noi piccoli – di senso per cui il ritorno al gioco era quasi immediato. Qualche volta, però, ciò che veniva colto accendeva la curiosità in modo straordinario, tanto da spingerci ad entrare in pausa col gioco e, fingendo una momentanea stanchezza che non c’era, ci lasciavamo andare su un gradino. fingendo d’essere “in tutt’altre faccende affaccendati”. In realtà puntavamo lo sguardo a manca e l’udito a dritta, fortemente intenzionati a cogliere e capire il massimo possibile. Spesso anche di più perché il contributo dell’immaginazione era tale e tanto da rendere il tutto un film da non perdere e ben memorizzare.

Cosa ci incuriosiva? Ci incuriosiva senz’altro l’argomento e, con esso, ci accalappiavano i contenuti così come venivano esposti.

C’è stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui la separazione tra reale e irreale, tra vissuto e immaginato, tra terreno e ultraterreno si riduceva ad un filo, un filo sottile, quasi impercettibile. Non era mistero per nessuno ammettere presenze strane nella vita di ogni giorno e anche di notte, presenze non sempre passive, ma capaci anche di azioni dirette e finalizzate a sortire, comunque, degli effetti.

Erano intricanti le storie che quei gruppetti al femminile, fatti di donne diverse per età, formazione e condizione sociale, si ritrovavano a narrare e ad ascoltare, in quei caldi pomeriggi estivi quando, liquidate le poche faccende domestiche, si ritrovavano, puntualmente alla stessa ora e allo stesso posto, nell’angolo, appartato, di uno spiazzo più grande.

Conversavano tenendo impegnate anche le mani in lavori di rammendo e ricamo, mani che andavano da sole, meccanicamente, e che, se si arrestavano, lo facevano  solo per poco e quando l’argomento andava facendosi particolarmente intrigante.

Oggi, quel loro fare si direbbe “socializzazione di comunicazione” o “comunicazione socializzata”; allora era soltanto un “pissi pissi…”, esattamente il bisbiglio che riusciva a cogliere chi si trovava a passare di lì, un suono onomatopeico che addolciva di molto il termine “pettegolezzo”. E’ anche vero che, grazie a quegli sfoghi pomeridiani e a bassa voce, tante famiglie sono rimaste unite malgrado ci fossero buone motivazioni per non farlo, tante amicizie si sono conservate e rafforzate deglutendo qualche boccone amaro e tanti bimbi si sono formati alla vita assaporando una varietà indicibile di “pissi pissi”, di bisbigliare tra donne, tanti “dirsi e non dirsi” accompagnati, via via, ad atteggiamenti di sorpresa, di paura, di commozione e di stupore.

Di che parlavano? Di tutto e di niente, di ciò che era successo, di ciò che poteva succedere, di ciò che si diceva o si taceva e, molto, di ciò che si sottintendeva. Si parlava di fatti e previsione di fatti, di reale e immaginario, di cose vere, verosimili e false che, al momento della narrazione, si ponevano su uno stesso piano di veridicità indiscutibile perché tutte precedute, rigorosamente, dalla sottolineatura, rimarcata, di “Pare che…”, espressione di dubbio, ma, in quella circostanza, stava per “Sembrerebbe… ma è così! ”.

Eduardo De Filippo, nel 1948, scrive “Le voci di dentro”, una commedia, in tre atti che narra le conseguenze di un sogno ritenuto fatto vero e che dà l’avvio ad un intreccio di eventi tali da portare alla riflessione, finale, che un assassinio solo sognato, pur se non accaduto, crea davvero delle vittime: uccide la stima e la fiducia nel momento stesso in cui accende il dubbio sull’onestà di amici di sempre e dà vita al sospetto di tutti nei confronti di tutti. Il merito o la colpa è di un sogno, un semplice sogno, che porta alla ribalta pensieri e sospetti che la coscienza respinge, tenta di allontanare e che, invece, vanno a popolare il subconscio, il ripostiglio segreto per ciò che è meglio non dire  e non fare

Le voci di dentro” sono patrimonio di tutti, nessuno escluso, hanno a che fare con ciascuno di noi proprio come i sogni che sono espressione di pensieri, sentimenti e ricordi che di giorno evitiamo, ma che, dormendo, emergono sia pure camuffati. Basterebbe farle venir fuori le “voci di dentro”, liberarle per liberarci del loro effetto negativo. Fare come facevano le donne nei vicoli di paese: parlarne per non rimuginarle dentro, confidarsele reciprocamente, magari premettendo un “Pare…” che fa diventare tutto più impersonale.

Del pettegolezzo solitamente non si ha un giudizio positivo, lo si considera un’incontinenza nel pensare e nel dire ovvero pensieri e parole in libertà senza frapporre, tra essi, il “riflettere”, il vaglio dell’ “opportunità”.

Pensieri e parole sono le nostre abituali “voci di dentro” e “voci di fuori” che, per quanto si voglia, ognuno cerca non solo di padroneggiare, ma anche di gestire per farne un uso differenziato a seconda dell’interlocutore e del momento. Usiamo le “voci di dentro” e quelle “di fuori” in modo differente a seconda se “ragioniamo” su o di qualcosa/qualcuno o se “parliamo” su o di qualcosa/qualcuno.

Le “voci di dentro” siamo noi, ciascuno di noi con la parte di buono, utile, vero, felice, bello insieme al cattivo, all’inutile, al falso, al triste e al brutto che pure possono esserci e che, razionalmente, proviamo a tenere a bada finché ci è possibile. Valvola di sfogo è il “Sogno”, ma lo sono anche l’“Arte” e la “Scienza”, e assumono un senso soltanto quando li socializziamo cioè se raccontiamo il sogno, esponiamo l’ opera d’arte, eseguiamo  il concerto, rappresentiamo il lavoro teatrale, pubblicizziamo la scoperta. Non ci sentiamo paghi solo perché “facciamo”, “ricerchiamo”, “componiamo”, “scriviamo”, o almeno non pienamente paghi fino a che il tutto non è socializzato.

Che senso avrebbero le “creazioni sociali” se venisseto meno la capacità di narrarle ad altri e quella di convincere gli altri  a crederci?

Le “voci di fuori” sono tutto ciò che di noi appare e ciò che di noi incuriosisce, cioè desta curiosità e dà vita ad una realtà “immaginata” che, alla fine, finisce col suscitare maggiore interesse rispetto a quella oggettiva, a quel che siamo.

Oggi il pettegolezzo si chiama “Gossip”, un termine non solo alla moda, ma “nobilitante” considerato il ruolo e lo spazio che occupa nel sociale, nella stampa e nei media. Il perché ce lo ha semplificato lo storico  Yuval Harari: “… Ad ogni uomo o donna presi a sé non basta sapere dove ci sono i leoni o i bisonti. Molto più importante per loro è sapere chi, nel loro gruppo, odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto e chi è un imbroglione.

Ecco il successo del “Gossip” contemporaneo e l’importanza vitale del “pettegolezzo”,  del “pissi pissi …” che incuriosì, stimolò e arricchì l’infanzia di tanti, compreso di chi scrive, consentendo a gente semplice di paese di dar vita a legami so

ciali all’interno dei loro gruppetti di vicinato e avviare, senza saperlo, un importante e gradevole sistema di scambio di informazioni e di crescita sociale.

Le  “voci di dentro” hanno un senso, è innegabile, ma anche quelle “di fuori”, (gossip, pettegolezzi o “pissi pissi”) ce l’hanno ed è stato ed è importante perché, come scrive Robin Dunbar, è grazie a quelle “voci” che si sono accesi interessi, avviate intese, create complicità e reciprocità.

E non è tutto, perché Senza pettegolezzo non ci sarebbe società. Il pettegolezzo è ciò che rende possibile la società umana, così come noi la conosciamo (Robin Dunbar, docente di Antropologia dell’evoluzione all’Università di Oxford e grande esperto di amicizia).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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