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SVILUPPO VS PROGRESSO. RICORDANDO PIER PAOLO PASOLINI

Il Limite /51

Sviluppo VS progresso. Ricordando P. P. Pasolini

di Raniero Regni

“….ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola…” (Pasolini)

Perché celebriamo gli anniversari, i dieci anni, i cinquant’anni, i cento anni, dalla nascita, dalla morte, di autori e personaggi? Da una parte, ricordare è tenere nel cuore e nella mente il passato. L’oblio sarebbe un esito disumano e quindi è giusto celebrare anniversari e ricorrenze. Dall’altra, ho trovato una risposta in una riflessione di S. Latouche, che mi sembra vera (almeno lo era prima del Covid e della guerra in Ucraina!). Secondo lo studioso francese, siccome stiamo vivendo la fine di ogni continuità storica, e gli avvenimenti si susseguono e si accumulano nel vuoto senza lasciare tracce profonde nella memoria collettiva, abbiamo bisogno di commemorare tutto per riciclare a titolo postumo e artificiale avvenimenti del passato che testimoniano di una “storia ancora viva”. 

Quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini. 1922, era della stessa classe di mio padre, di cui ho ritrovato recentemente la tessera universitaria del 1942, ed ho pensato, “bella sfortuna, avere venti anni in piena guerra mondiale, essere richiamato alle armi, partire per la guerra e poi vivere l’8 settembre e la guerra civile!”. Pasolini studiava a Bologna e pubblicava, credo uno dei suoi primi articoli, su di una rivista studentesca fascista intitolatala “Architrave”, di cui era stato direttore il grande pedagogista emiliano Roberto Mazzetti. Strani dati biografici che giocano nella mia memoria. Per celebrare in qualche modo Pasolini, visto che un quotidiano nazionale pubblica molte delle sue opere, questa settimana ho acquistato dal giornalaio Scritti corsari. Avevo la mia copia, acquistata a vent’anni, nel maggio 1975 (che Pasolini farà in tempo a vedere pubblicata, perché verrà ucciso il 2 novembre dello stesso anno) che sono andato a riprendere. Quel libro, che mi guarda ingiallito dall’altra parte della mia vita, suscita ricordi lontani di un me stesso studente universitario a Perugia, un giovane incerto sulle sue scelte e sul suo futuro, come tutti i giovani. Ma tra quei ricordi c’è quasi percettivamente l’ansia di andare ad acquistare al mattino il “Corriere della sera”, per leggere l’articolo di Pasolini che compariva in prima pagina ogni settimana. Articoli formidabili, per la disperata sincerità delle sue analisi e per la violenza poetica del suo linguaggio. La sua presenza intellettuale era fortissima in quei miei anni di formazione. Miei e di altri miei amici e amiche. Una delle quali battezzò, credo anche per questo, Pier Paolo il suo primogenito. 

La morte violenta di Pasolini rese questi testi forti e provocatori, quasi profetici, come il testamento di un poeta assassinato. Ne ho riletto alcuni e non sono affatto invecchiati. La sua analisi era così radicale e perspicace da andare ben al di là della vita effimera a cui sono destinati gli articoli dei quotidiani, anche i migliori. La forza delle sue intuizioni ha il valore di un classico che sfida il tempo, imponendo idee e concetti che ci fanno ancora pensare, ancora utili anche per la nostra rubrica. 

Temi che ricorrono nella sua critica al consumismo edonistico, a quello che lui chiama il vero fascismo capace di provocare una mutazione culturale devastante a cui le vecchie istituzioni, la politica e la scuola, e persino la Chiesa, non hanno opposto nessuna resistenza. Uno di questi temi è la distinzione fatta tra lo sviluppo e il progresso. Lo sviluppo, quello appunto della società del produttivismo e del consumismo, dello sviluppismo (di tutto e di più, qualunque produzione è buona, anche quella di armi e veleni), sostenuta dai media, è il contrario del progresso. Lo sviluppo è il limite del progresso, e questo dovrebbe rappresentarne l’unità di misura, mentre è avvenuto il contrario. Non è solo la quantità del primo contro la qualità del secondo. Lo sviluppo è un progresso scorsoio, come lo definì l’altro grande poeta A. Zanzotto, amico di Pasolini. Più va avanti e più strangola le società attuali nelle sue contraddizioni come quella tra inquinamento ambientale e sviluppo dell’industria. Pasolini aveva capito che la conseguenza delle lotte di emancipazione degli anni Sessanta sarebbe stata paradossalmente il trionfo di una cultura del supermercato capitalistico, a tutti i livelli. Un nuovo potere avrebbe soppiantato tutti gli altri, un potere più che totalitario, totalizzante. “Bisogna farla una buona volta una distinzione drastica tra i due termini: ‘progresso’ e ‘sviluppo’. – scrive Pasolini – Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi d’Italia; ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza, o con un minimo di sviluppo materiale”.  Quest’ultima indicazione forse allude a quella che potrebbe rappresentare una via di uscita per la nostra civiltà, una volta accettato il limite dello sviluppo illimitato a cui si abbandona perdutamente ancora oggi. 

La sua intuizione poetica era più penetrante della sociologia e di ogni altra analisi politica. Come nel profetico ”L’articolo delle lucciole”, dove denunciava la scomparsa delle lucciole come emblema della devastazione ambientale senza riguardi per la natura causata dall’industria petrolchimica Montedison. Simbolo dell’ingordigia di imprese che divorarono l’ambiente e si mangiarono la natura in pochi decenni, lasciando poi dietro di sé le cattedrali nel deserto del post-industriale. Condivido ancora la sua conclusone, “ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola”.   

Pasolini ci manca. Ci manca la sua spietata lucidità e lungimiranza. Ci manca anche la sua vocazione di poeta-pedagogo, come scriverà nelle Lettere luterane, che rappresentano il seguito ideale postumo degli Scritti corsari. Al loro interno Pasolini scrive un “trattatello pedagogico” rivolto al suo allievo immaginario, Gennariello, a cui dice “sarò il tuo pedagogo”. Non so, non sono mai venuto a capo di questo problema, se Pasolini sia stato un buon maestro, per la contraddizione tra il suo pensiero, la sua sensibilità e le esperienze personali che lo hanno coinvolto in maniera contraddittoria. Ma non è questo il luogo per fare un bilancio. So però la disperata verità delle sue lezioni. Lui ci ricorda, in questi tempi di guerra, che la poesia e la cultura, se non possono impedire la guerra, la violenza e la crudeltà, possono però curarne sempre le ferite.

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