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YÒRGOS CHRONÀS: UN TRANSFIGURATORE DELLA REALTÀ NELLA POESIA CONTEMPORANEA GRECA

Yòrgos Chronàs emerge come una figura di spicco tra i poeti contemporanei greci. Nato nel ’48 al Pireo a venti anni si trasferisce ad Atene dove, nel 1973 con la pubblicazione del suo primo libro, seguito l’anno successivo da un secondo volume finanziato da Mànos Chatzidàkis avviene il suo esordio letterario. L’amicizia di Chatzidàkis che finanzia l’edizione del suo secondo volume gli procura anche un breve spazio radiofonico sulla radio nazionale, opportunità che gli da modo di evidenziare la sua personalità  nel mondo della letteratura e della musica.

La presenza di Chronàs nella vita culturale greca è poliedrica: autore di venti libri che spaziano dalla poesia alla prosa al teatro, continua ad essere un pilastro della scena letteraria attraverso trasmissioni radiofoniche, la fondazione di una rivista letteraria e di una casa editrice. La sua collaborazione con musicisti di spicco della scena musicale greca, tra cui Chatzidàkis, nel creare circa un centinaio di canzoni, aggiunge ulteriore profondità alla sua opera multiforme. Tuttavia, il cuore della sua influenza risiede nelle sue parole. Chronàs è spesso descritto come il “poeta delle piccole cose”, ma in realtà è molto di più. Egli agisce come un trasfiguratore della realtà, catturando il surrealismo presente nella vita quotidiana e trasformandolo in poesia. Il suo linguaggio, pur essendo diretto e colloquiale, si avventura nelle profondità oscure dell’esperienza umana, rivelando il dolore e la bellezza nascosti nelle pieghe della vita di tutti i giorni.

La sua poesia sfugge alla tradizione lirica, nello sfidare le convenzioni poetiche e nel dare vita ad un linguaggio che si muove liberamente tra la realtà tangibile ed il mondo interiore dell’essere umano.

In memoriam

Alla fine poteva anche non essere mai sceso dal treno
e stare là da prima di me ad aspettare qualcuno
nessuno o niente. Poteva anche essere un uccello imbalsamato
in via Pireòs o un cervo fossilizzato sopra gli scogli
– queste morti stanno dipinte dentro di noi senza ali,
senza musica, senza entrate e uscite, così restano morti
sottoterra, in tutti i tempi, sulla terra.
Alla fine potevo anche non essere io, ma un altro
arrivato da giorni alla stazione, sotto
l’orologio fermo, in attesa di un incontro
la domenica pomeriggio. Potevo anche essere la manifestazione
tradita, il disertore, l’entrata del vinto nel
ritratto della sua fama postuma, la droga.
Quel pomeriggio, trovammo il nostro volto. Non eravamo più
noi. Eravamo belli, allora. Cosa rara.

*

Come allora, suoneranno i grammofoni,
allora, quando Rita se ne andò e restammo sole
nei bordelli.
Non avevamo uomini – Nikos era appena uscito
di prigione, e Simone portava in giro i bambini in carrozzina
per i luna park di provincia
Eravamo uscite sulla porta e ci passavamo il pettine
fra i capelli
Volevamo microfoni, veli neri gettati sulle spalle,
profumi costosi per i nostri corpi.
Genni, che dovevamo fare? Il mercato si riempiva
di maschi cavalli stecchiti e noi, con le borse, chiedevamo
del pesce.

*

Oramai passeggiano nei porti
gli amori, i baci frettolosi dietro le lamiere
dentro le baracche, accanto ai bagni
Piccole stanze, grandi stanze, stanzini
e sedie
custodiscono gli amori sotto chiave
Oramai stupidi, e prolungati.

La morte degli amanti

Ieri si è spenta la sua voce con le ombre
dietro le camere dove ci incontravamo
di sabato tardi,
vivendo la mitologia dei dettagli
prima della genesi del mondo
avendo tu il ruolo di Proteo
e io un ruolo di cui non ricordo più
le parole
le frasi
gli schemi.
Solo a momenti ricordo quelle
nostre ombre sul muro, dai movimenti così conosciuti
che nemmeno le osservavamo
nemmeno le commentavamo
nemmeno le vivevamo.
Come quella musica, musica disgregativa,
musica monotona nel nostro silenzio, dissolvente
nel tempo che si scioglieva in candele da due soldi,
fatte col grasso del maiale, sopra il tavolo
venivano dall’ignoto insieme all’incenso,
bruciavano.
Non ricordo altro, tutto c’è spento con la genesi
del mondo, quel giorno che tuo padre
facendo iniezioni di calce e terra nel cortile
fabbricò la prima cifra del nostro abbecedario.
la chiave per aprire la camera
dell’incenso
e delle candele da due soldi di grasso di maiale.

Quel giorno sei venuto e mi hai trovato
afflitto.
– Poveretto, mi hai detto
i giorni vuotano cicuta
nei nostri bicchieri pieni
e io non sono Socrate
per morire tranquillamente in prigione.

Ti ho guardato quando sei caduto sul pavimento,
giallo dipinto di ocra, con un odore che non
distinguevi se era sperma di uomo o incenso.
Hai gridato
– Che almeno mi divorino i cani.

Ieri c’è stato il tuo funerale. Non ci sono andato.
Sono rimasto con la mia ombra nella camera
dove ci incontravamo tardi di sabato
bruciando candele di grasso di maiale e incenso.
Ho continuato a bere cicuta.

Ieri c’è stato il tuo funerale.
Io non ci sono andato.

Brezza

Quando arriverai alla stazione
non fare nulla di superfluo
Non andare al chiosco
dai venditori di tabacco o frutta
Te ne starai fermo sotto la grande porta
immobile dentro la luce del giorno
lasciando sulle scarpe la polvere del mondo
nelle linee chiuse delle tue mani
Perché noi, da lontano
ti riconosceremo
sotto l’orologio che segnerà
l’ora perduta.

( le liriche di Yòrgos Chronàs sono nella traduzione italiana di Massimiliano Damaggio)

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