HomeLa RivistaHELGA MARIA NOVAK: LA VOCE SCOMODA DELLA LETTERATURA

HELGA MARIA NOVAK: LA VOCE SCOMODA DELLA LETTERATURA

Helga Maria Novak è una figura tanto affascinante quanto inquietante nel panorama della letteratura contemporanea. Poetessa e scrittrice, la sua vita è stata segnata da una serie di esperienze dolorose e ribelli che hanno plasmato non solo la sua arte, ma anche il suo carattere indomito e la sua voce critica.

Nata nel 1935 a Berlino, un’infanzia segnata dall’abbandono da parte della madre e dal suicidio del padre, data in adozione ad una famiglia rigida e conservatrice. Cresciuta in un’epoca segnata dalle tensioni della guerra e dalla durezza della vita nella DDR, Helga trovò rifugio nella politica, sperando di trovare, nell’ideologia del Partito, il calore e l’amore che non aveva trovato nella sua famiglia adottiva.

Tuttavia, il sogno si infranse di fronte alle contraddizioni e all’oppressione del regime al quale Helga si ribellò, trovando nel suo talento letterario un mezzo per esprimere la sua disillusione e denunciare le ingiustizie che aveva vissuto. I suoi scritti autobiografici, come “Die Eisheiligen” e “Im Schwanenhals”, offrono uno sguardo intimo sulla sua lotta contro l’autoritarismo e la repressione.

La sua voce ribelle, non allineata, le costò l’esilio dalla DDR nel 1966, dopo che le fu revocata la cittadinanza per i suoi “sentimenti sovversivi”. Da allora, la sua vita fu un continuo peregrinare, dalla Germania, al Portogallo, all’Islanda, fino a stabilirsi infine in Polonia nel 1987, dove visse fino alla sua morte nel 2013.

Helga Maria Novak non è stata solo una testimone dei suoi tempi, ma anche una partecipante attiva agli eventi che hanno segnato la storia del XX secolo. Attraverso la sua poesia e la sua prosa, ha dato voce ai marginali, ha denunciato le ingiustizie sociali e ha lottato per la libertà individuale in un mondo segnato dalla repressione e dall’oppressione. La sua vita è stata una costante ricerca di amore e di libertà, un’incessante lotta contro le convenzioni e le restrizioni imposte dalla società e dal potere politico.  (R.P.)

La traduzione dal tedescoè della dottoressa Paola Quattrini

 

Ringraziamento all’impastapillole della Grünenthal  

io – bambino deforme
strappato e affogato nel vicino stagno
al chiaro di luna della nostra europa ammuffita
non mi sono lasciato impantanare

mia madre
ancora affondava nelle pozzanghere sul tragitto verso casa
ed io già davo spettacolo sui giornali
di nazioni venerande e guaivo

nella mia crociata
attraverso strade e piazze tedesche incontrai
seimila storpi simili a me
e me li trascinai dietro

verso il nostro creatore
impastapillole della Grünenthal che ci ha
creati e approntati a scherno e disonore
della specie umana

suvvia, maestro,
la cucina delle streghe puttana cavalcata dal denaro rognoso
ci ha partoriti e ci ha chiamati tutti
figli del talidomide

attaccaci ora
al carro ignominioso della tua stirpe ti laceriamo
in dodicimila monconi nell’aria –
coorte dei lupi

sotto il gelso

carta carbonizzata innevava la strada
lanterne sghembe ondeggiavano ebbre
le finestre a inferriate della scuola di mattoni
tenevano al sicuro in cantina quaranta bambini

le mura della città andavano in cenere
di fronte alla scuola c’era un albero di gelso
e un bambino nei bagliori dell’incendio
si ingozzava la bocca di dolci more

la scuola in mattoni è bruciata per intero
le inferriate tennero bene
i quaranta presero fuoco come libri urlanti
da ultime s’infiammarono le braccia protese

il bambino ha smesso di crescere
– uno scemo qualsiasi – e
mentre sulla cenere crescono le cipolle
lui continua sotto l’albero di gelso

a ingozzarsi la bocca di dolci more.

Deportate

le scavatrici di torba

vengono dai campi paludosi
le loro teste rasate a zero
ondeggiano nel crepuscolo
come la collana di perle di una gigantessa

a piedi nudi le donne lasciano
le impronte nella strada catramata
i soldati davanti alle palizzate
aspettano i corpi

delle scavatrici di torba

DESIDERO LA PIOGGIA

che sciacqua la bocca
sabbiosa il semolino le scorze
di noci patate mele cadute
desidero la pioggia che ripulisce lo stomaco
sospinge acqua morbida nelle vene al cuore
desidero la pioggia che schiarisce e gonfia
i miei capelli lisci e li arriccia
e strofina via dalle spalle la sabbia di ieri
desidero la pioggia che resta nelle pozzanghere
lì dentro voglio infilare i miei piedi tristi
desidero la pioggia che mi distende
i tratti del volto e lava via il sale

 

questa foresta

questa foresta sogno dei miei anni d’infanzia incessante andare
compimento e ricordo foresta così bersagliata* e
spelacchiata questa foresta e nessun altra mio
periodico ricovero tenera protezione salvifico
rifugio corro mi fermo addormentata e punzecchiata
sobbalzo e allora avanti e più a fondo
questa foresta sonora e silente che effonde calore
e frescura così animato silenzio avanzo di soppiatto
procedo guardinga verso ogni tana abbandonata
come un tronco resto in questo bosco quasi che
molte sue estremità mi avessero levigata proseguo illesa
trascino i piedi tra le foglie bronzee sfioro i
tronchi dorati stacco bianche cortecce per avvolgerle
attorno ai polpacci come Birkibeinar** questa foresta
e nessun altra arriva fino in Siberia la vera
tangente est-ovest ponte verde ponte brullo e morbido
che oscilla sotto gli aghi di pino
mio rifugio e mio inselvatichimento
questa foresta mi infiamma già crepita
la mia pelle giro in tondo come l’eco di uno sparo
questa foresta in cui non sono mai sola con la mia
salutare solitudine questa foresta di battute e terreni di caccia
che si prolunga come un vecchio amore e accarezza
la fronte rugosa mia casa e mio perenne nascondiglio

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