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La tragedia dei beni comuni

 Il Limite / 143

La tragedia dei beni comuni

di Raniero Regni 

      Quello che è nostro non è mio

Proverbio africano

  Che cosa avrà pensato quell’abitante dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero rimasto in vita? La sua isola sarebbe diventata un deserto punteggiato soltanto di gigantesche ed inquietanti statue di pietra. La storia è nota e si è ripetuta più volte, in molte altre zone del pianeta e fa parte di quei numerosi collassi, studiati tra l’altro da Jared Daimond, che hanno caratterizzato la nostra specie. Un uso dissennato delle risorse naturali ha spesso provocato, anche nelle piccole società del passato, dei danni ambientali tali da distruggere la popolazione e la civiltà da essa creata. È il problema del rapporto tra interesse e libertà individuale e beni comuni, come aria, acqua, suolo, foreste, animali selvatici, paesaggio e così via. Si tratta in fondo di un problema di limiti: fino a che punto mi posso spingere nell’utilizzo di beni a cui tutti attingono ma di cui io mi impadronisco e che voglio godere in maniera esclusiva, prima di distruggerli?

Nelle società antiche il limite era costituito dalla gerarchia, il re poteva imporre il suo potere e limitare l’uso dei beni da parte di altri, oppure da un potere sacrale che, attraverso un interdetto religioso, limitava lo sfruttamento delle risorse di un territorio. Per questo ieri la libertà era limitata e la potenza tecnica anche. La natura sembrava immensa, stabile, “sfondo immutabile che nessun uomo e nessun dio fece”, che nessuno poteva modificare, come scrive Eschilo.

Oggi, nell’età moderna, la libertà individuale è stata rivendicata ovunque e la potenza tecnica è aumentata a dismisura, manipolando la natura, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza della vita sul pianeta. Ed ecco che la nostra epoca, l’Antropocene, si presenta come l’epoca dei beni comuni e lo fa in maniera tragica. Il grande critico G. Steiner, in uno dei suoi saggi più belli, ha sostenuto la “morte della tragedia”, come genere artistico, nella cultura occidentale, che pure l’aveva inventata. Uno smarrimento della voce tragica. Dopo le grandi stagioni della tragedia greca e di quella moderna con Shakespeare e Racine, la nostra cultura non era più in grado di esprimere lo spirito tragico che nasceva dal contrasto tra l’eroe  o l’eroina e l’oscuro volere degli dei, ovvero il destino, il fato. Uno scontro tra potenze infinite e potenze finite, destinate quest’ultime a soccombere.

Lo scenario che si sta delineando in maniera evidente con il saccheggio della natura, con il riscaldamento globale e la crisi climatico-ambientale, con il drastico attacco alla biodiversità appaiono come un nuovo orizzonte tragico. Non a caso, nel 1968 un biologo americano, Garrett Hardin, scrisse un saggio memorabile intitolato The tragedy of commons, tradotto in italiano con il titolo La tragedia dei beni comuni. Venne pubblicato su “Science” e dette vita da un dibattito che si è fatto sempre più intenso, soprattutto tra gli economisti, ma che si è esteso oggi agli storici, ai sociologi, ai filosofi, agli antropologi (e dovrebbe coinvolgere anche i pedagogisti!). Quindi non sono stati i letterati e i commediografi ad occuparsi di questo nuovo orizzonte tragico della nostra epoca, ma proprio chi studiava una delle cause di questa tragedia, ovvero l’economia. È vero che Hardin non era un’economista ma un biologo, ovvero una persona che conosce i sistemi viventi e le loro sagge dinamiche di autolimitazione e di equilibrio omeostatico. Lo scenario da lui descritto era quello della sovrappopolazione, dello sfruttamento delle risorse alimentari ed era una tragedia perché l’esito inevitabile era il collasso sociale.  L’esempio era quello di un pascolo aperto dove ogni pastore aveva interesse ad aumentare il numero di pecore da far pascolare. Ogni capo in più fa aumentare il profitto del pastore a danno degli altri, se tutti agiscono così il risultato è la distruzione del pascolo, la rovina del bene comune.

Fa parte della tragedia la triste e, in fondo falsa, conclusione che l’altruismo è impossibile e la fraternità è un’illusione. I beni ambientali sono beni comuni, ovvero né privati né pubblici. “Se vi è un tale bene – sostiene G. Sapelli -, la corsa inevitabile è ad appropriarsene individualisticamente e a sovrasfruttarlo generando diseconomie esterne crescenti, beneficiando del possesso ma sostenendone solo una piccola parte del costo (che si socializza inevitabilmente), dando in tal modo vita al saccheggio di tali beni”. Ecco l’inevitabile tragedia.

Sorge allora la domanda, che appare oramai retorica: fino a quando un mercato fondato sui beni privati consentirà la riproduzione di beni essenziali per la vita associata come ad esempio la salubrità dell’aria? Quali vie di uscita da questa situazione?

Dovremo tornare a pensare e a scrivere, anche su questa rubrica, e a prendere posizione, a proposito di questo tema decisivo per i nostri tempi.

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