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MUOVERSI O ADEGUARSI?

Il Dubbio / 139

MUOVERSI O ADEGUARSI?

di Enea Di Ianni

 C’era una “canzone”, cioè una favola, che, quand’ero bambino,  aveva il pregio di tenermi fortemente attratto e attento, interessato e curioso fino al termine della narrazione. Anzi un poco di più perché c’era sempre qualcuno tra noi piccoli, qualche volta anche tra i grandi, che chiedeva di riascoltarne  una parte e il narrante accettava l’invito con piacere. Crescendo e continuando a riascoltare la “canzone” mi sono reso conto della bravura di quel narratore e della sua ricchezza d’inventiva al punto da incuriosirci anche col bis di quanto già ascoltato. Il racconto lo chiamava “Parrucchelélla me’ ”, traducibile in lingua con “Bastoncino mio”, anche se non rende tutto il senso che aveva in dialetto.

A Villalago, andavano di moda tre tipologie  di bastoni. C’era quello delle persone importanti: ben levigato, di legno lucido e leggero, sul marroncino o sul nero, con nella parte superiore una specie di sfera di legno o d’ottone e, qualche volta, di cristallo che consentivano una presa, da parte del possessore, gradevole ed elegante. All’estremità inferiore, a contatto col suolo, una specie di piramide rovesciata con la punta in giù e metallica. Era il bastone di coloro, non tanti, che appartenevano  all’ “alta società”. Per gli appartenenti alla parte “media” c’era il bastone in legno meno nobile, ricurvo nell’impugnatura e che aveva in comune con l’altro la parte terminale: utile sia con la neve che nel camminare nei terreni perché vi si conficcava e non si consumava. Ultima rimaneva la “parròcchela”, ovvero il bastone per i meno abbienti che, dotati, spesso, di buon estro, lo ricavavano da un ramo di acero ben ripulito dalla corteccia  e, poi, istoriato da su a giù con graffiti fatti a mano e che, col tempo, assumevano una coloritura più scura rispetto al resto del bastone. Nella parte alta terminava ingrossata da una specie di bulbo in parte avvolto su se stesso e, in parte, ricadente lungo il bastone.

La “parròcchela” degli adulti, quando la si faceva per i ragazzi, assumeva dimensioni più piccole e diventava la “parrucchellèlla”, minuta nella forma e agile nei movimenti. Il suo pregio, nella “canzone”, era quello di porsi a tutela dei più poveri o più deboli, in particolare del suo padrone e della sua famiglia, aiutandoli nel soddisfacimento dei bisogni legittimi e nelle azioni a fin di bene e rimanendo, invece, indifferente quando l’intento sapeva di rivalsa o di sopruso. Tante volte, incantati dalle storie della “parrucchelèlla”, ci è capitato di desiderarne una, di poterne fare uso e sempre, pensandoci bene, il sogno era quello di dare una mano ai più poveri, ai più deboli, ai più indifesi. Accadeva così proprio ogni mese di gennaio quando, in paese, ci si preparava per dar vita, nei diversi vicinati, alle “fanoglie”, ai fuochi in onore di San Domenico Abate.

Il 21 e il 22 di quel mese, al primo buio serale, partiva,  l’accensione dei falò. subito dopo la funzione religiosa serale. Al crepitar della fiamma si accompagnava l’intonazione corale dei canti più belli della tradizione religiosa, poi il “santo rosario” e, immediatamente dopo, con una grande carica di emozione, “Sorriso di bimbi” e “Dalle valli…”, gli stupendi inni dedicati al Santo, concludevano il momento spirituale della serata e aprivano alla convivialità di un ristoro condiviso: patate cotte, intere, sotto la cenere, patate tagliate a metà e cosparse di sale nella parte del taglio,  baccalà arrostito sulla brace e condito con poche gocce d’olio… Sì, poche gocce perché l’olio, allora, si comprava ogni tanto e a “quarti” di litro.

Tutti accoglievano tutti, ogni cosa s’offriva a tutti perché  tutti, comunque erano coinvolti, con ruoli diversi e in cose differenti, per rendere possibile un evento importante, a cadenza annuale, e del quale si sarebbe parlato fino all’edizione successiva, raccontandolo a parole, ma con tanto di cuore e nostalgia tenuti insieme senz’altro da un’ammirevole carica di affetto e religiosità, ma anche di sano e volontario darsi da fare, di lavoro.

Subito dopo la festa di Sant’Antonio Abate ci si era mossi per la raccolta della legna da ardere, delle fascine, di qualche tronco robusto.

I legnaioli erano felici di donarla come i contadini erano pronti ad accogliere i questuanti di patate, il cantiniere ad approntare qualche fiasco di vino e i macellai a far dono,  per il Santo, due corone di salsicce, una di carne e l’altra di fegato.

Muoversi, allora, era il verbo più in voga e lo era al punto che tutti, ma proprio tutti, si muovevano. Facevamo tenerezza noi bambini che, una volta l’anno, portavamo da casa un pezzo di legna a testa, il nostro obolo. No, non l’avevamo rubato, l’avevamo chiesto ai genitori e se qualcuno l’aveva sottratta da una “serra”, dalla catasta di un vicino di casa, non l’aveva rubata, ma solo presa in prestito perché a primavera avrebbe saldato il debito riponendo, sulla stessa “serra”, un tronchetto raccattato tra i campi. Era bello sentirsi integrati e non ospiti; era bello, soprattutto, assaporare la socialità attraverso una convivialità non di facciata, ma reale, avviata, passo passo, gli uni con gli altri.

Socialità” non è mai qualcosa di statico, qualcosa che sta lì, in un certo posto e che, se riesci ad arrivarci, ci sei e ci resti.

Socialità” è andare verso gli altri tenendo con sé, in una mano, la “parrucchelèlla”, quel bastoncino leggero e di legno non pregiato, istoriato con graffiti che sanno di noi, della nostra storia personale, e che può esserci utile nel cammino anzitutto come sostegno fisico, ma anche come sostegno morale-affettivo ogni volta che ci soffermiamo a rileggere i segni  di cui è istoriato. All’occorrenza può servire  anche per difenderci.

Da qualche tempo le cose sono in po’ cambiate e non serve fare la “questua” di legna, patate o altro. Si fa la lista e poi, in uno dei tanti supermercati, si compra l’occorrente, si acquisisce lo scontrino e si divide la somma per i partecipanti. Qualcuno ancora si muove, ma tanti si adagiano, siedono comodamente e ammirano il falò degustando il menù. La musica c’è, la gente anche. Il Santo? Il Santo c’è e non c’è e se c’è non si vede o si vede poco.

Stare insieme per condividere è altra cosa dal  condividere per stare insieme. Proprio come muoversi e adagiarsi.

 

 

 

 

 

 

 

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