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STATUINE O “PASQUARIELLE”?

Il Dubbio / 133

STATUINE O  “PASQUARIELLE”?

di Enea Di Ianni

 E’ Natale. Dopo la festa dell’Immacolata Concezione, il Natale incalza, si fa fortemente sentire attraverso le tante luminarie, i numerosi addobbi e l’ultimazione dei presepi, grandi e piccoli, nelle chiese, all’aperto, nelle comunità e nelle case di tanti credenti.

Dal 21 al 24 dicembre si respira aria di curiosità, di grande e lunga vigilia che tocca un po’ tutti, grandi e piccoli, ricchi e poveri.

I piccoli e i poveri lo vivono davvero con forte credulità e tanta ingenua speranza. I primi perché si ritrovano al centro dell’interesse: nasce un bambino come loro, in una povera capanna, scaldato dal fiato di un bue e di un asinello, coccolato dalle attenzioni di una mamma e di un papà poveri davvero, ma capaci di amore sincero e affetto autentico solo per lui. Non sempre ci si chiede di “quanto” amore e di “quale” affetto abbia bisogno un bimbo. “Amore” è una parola magica, straordinaria, evocatrice di dolci sensazioni e tenere carezze, ma anche di mille attenzioni non contemplate  in  codici di comportamento, ma affidate alla spontaneità creativa dell’essere mamma e papà, che li rende capaci di farle arrivare proprio quando sono fortemente attese, desiderate e dovute. Anche “affetto” è parola magica: non si vende e non si compra, è nutrito e alimentato da ciascuno di noi e si lascia cogliere in quell’alone indistinto, ma salutare, che consente all’amore di veicolarsi da un essere all’altro rinnovandosi sempre.

I poveri vivono la sofferenza di un’esistenza fatta di stenti. Ogni giorno, ogni mese, ogni anno sperano che qualcosa cambi, si migliori e, intanto, si danno da fare, non demordono e neppure lasciano intendere la propria sofferenza. La coprono col manto della dignità, tanta dignità e forza d’animo da farli apparire addirittura felici agli occhi degli incontentabili.

La dignità, però, non toglie i bisogni e per questo il sogno di Natale non è chiedere ricchezze, tesori, patrimoni, ma solo certezza di un lavoro, vicinanza ai propri cari, salute. Sì, tanta salute e serenità.

Per tanti altri l’8 dicembre  si tramuta in un “liberi tutti”: il “via” per una grande, affannosa e confusa corsa alla ricerca del “dono” natalizio. Una corsa senza pause, sempre più stressante e che non lascia neppure il tempo di sostare con l’amico, il parente, il compagno di di lavoro a godere del momento, magari ad assaporare il godimento dell’altro per la sorpresa del dono e per la vicinanza del donatore. C’è tanta fretta e tanto senso del “dovere” che nulla hanno a che fare col piacere di ritrovarsi insieme non tanto per “darsi cose”, ma per “dirsi cose”, per ritrovarsi e raccontarsi almeno una volta all’anno. Non c’è tempo o, meglio, il tempo ci sarebbe se solo ciascuno di noi provasse a gestirlo e non a lasciarsi travolgere e imbrigliare, come materiale inerte, rassegnati perché seguaci del “così fan tutti”.

Non andava assolutamente di fretta Giuseppe Avolio, artista pacentrano comunemente chiamato da tutti Peppino, che ha trascorso tanta parte della sua vita a trasformare acqua, argilla e colori in “Pasquarielle”, personaggi popolari del Presepe, e che per i locali erano detti anche “Mammuccìje”, date le loro dimensioni piccoline.

Negli anni 60, da studente, ho dimorato, per alcuni mesi, a Pacentro, ospite degli zii ed evitando così, giornalmente, il tragitto Villalago-Sulmona. Fu allora che gli amici del posto, già ad ottobre inoltrato, si preparavano ad acquistare qualche “Pasquarielle” per i loro presepi di natale. Seguendo loro, mi ritrovai in casa di Giuseppe Avolio, chiamato da tutti i pacentrani “Peppino”. Mi ritrovai, così, in un grande fondaco sottostante la cucina di casa, affascinato da un omino delicato, con un accenno di baffetti e pochi capelli trascurati, color cenere, a malapena trattenuti da un minuto cappellino. Mostrandomi gli svariati personaggi già ben definiti  e colorati, pronti all’uso, ricordo d’essere rimasto colpito non solo dalla bravura dell’artista, ma soprattutto dalla sua umiltà. Accanto a lui la moglie e l’unica figlia impegnate, anch’esse, nel dare i colori agli ultimi “pasquarielli” appena cotti e sempre, rigorosamente, di creta. In quel fondaco-laboratorio familare c’era la rappresentanza della vita che si svolgeva all’esterno: a Pacentro e nei paesi del circondario.

La fisionomia dei personaggi risentiva molto dell’umore dei tre rifinitori, umore che si trasferiva nella cura dei particolari e nei colori adoprati nel rifinirli. Prima della seconda guerra mondiale il principe Umberto di Savoia aveva richiesto, all’artista Avolio, un intero presepe:150 “pasquarielle” che non solo apprezzò e pagò, ma volle onorare col dono, all’artista, di un paio di gemelli con la scritta “Umberto di Savoia”.

Protagonisti delle storie presepiali di Peppino Avolio erano pastori, artigiani, macellai, barbieri, sarti, muratori, pastori, pescatori, fornai.

E poi donne, tante e diverse donne, di ogni età, immortalate negli atteggiamenti della quotidianità: a prendere l’acqua, ad allattare bimbi, a ricamare corredi, a gestire locande, ad accudire alle faccende di casa.

Il lavoro degli umili elevato al rango di celebrità. Non ci sono né i ricchi, né i potenti, se si escludono i Magi, ma solo grande spazio alla gente semplice, quella comune che il Bambinello, divenuto adulto, avrebbe voluto al suo seguito. “Il presepe di Avolio era il presepe  degli umili, dei semplici, impregnato di un’ingenuità, di un candore che non era altro che espressione di sentimenti, emozioni, attenzioni e amore per il proprio territorio[1].

Oggi, per i presepi, ci sono le “statuine” prodotte in serie, ridondanti nei colori e modellate in stili che hanno poco della semplicità di un tempo.

Tra i diversi personaggi  compaiono, sempre più spesso, politici, attori, atleti dello sport, personaggi del mondo dello spettacolo. Non ci sono sbavature nei colori, neppure piccole crepe; è tutto perfetto e davvero attraente al massimo. Troppo attraente per chi, come me,  ogni anno, riposizionando nel presepe  i “Pasquarielle” di Peppino Avolio, s’attarda a carezzarli uno ad uno e, fingendo di togliere una inesistente  patina di polvere, prova a rivivere le emozioni della prima volta e scopre che ci sono  tutte. Ancora tutte, proprio come la prima volta..

                                 [1] MARCHINI Eleonora, L’Aquila 25.12.2017

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