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RICORDO O NOSTALGIA?

Il dubbio / 117

 RICORDO O NOSTALGIA?

di Enea Di Ianni

 Luglio.  L’arrivo del caldo vero nei borghi di montagna si verificava proprio in questo mese ed esplodeva all’improvviso, di botto. Il grano di altura si faceva pronto ad essere mietuto e c’era ansia tra i coltivatori perché quel poco di ben di Dio bastava un niente a rovinarlo per sempre. Che so? Una grandinata improvvisa, un temporale irruento o, magari, folate robuste di vento che piegavano le turgide spighe. Insomma, nei giorni che precedevano la mietitura del grano, nei paesi di montagna, l’ansia si faceva paura, la paura accresceva l’ansia e si generava preoccupazione. Anche i sonni si facevano agitati, meno tranquilli e le consultazioni del Barbanera venivano continuamente discusse “coram populo”, pubblicamente, durante le ore di frescura serale, nel segreto dei vicinati, lasciando a ciascuno libertà di interpretazione. L’arrivo di Luglio nei borghi di montagna, che allora si chiamavano paesi, voleva dire il via alla grande festa che, muovendo dalla mietitura del grano e passando per la trebbiatura, si arricchiva di momenti lavorativi e ricreativi che coinvolgevano  un po’ tutti e ccostituivano la filiera di produzioni e attività collegate al grano. Appena dopo la mietitura, le spighe, raccolte in “manuòppele”   e poi in “covoni[1] in attesa di quando  sarebbe arrivata “lei”, la meraviglia di grandi e piccini: la “trebbiatrice”. Una risorsa indicibile quella macchina: ingoiava, uno dietro l’altro, i “manuòppele” che un operaio, servendosi di una “forca”, introduceva, speditamente, in una specie di grande bocca. La macchina, dopo averli ingoiati, a mo’ di miracolo, operava una selezione restituendo, attraverso uscite differenti e separate, chicchi di grano, balle di paglia e “cama”, ovvero piccolissimi e leggerissimi scarti  di paglia  non assemblata.

Tutto ciò che aveva a che fare col grano, stranamente e comunque, coinvolgeva, per un verso o per l’altro, gran parte del paese. Subito dopo la mietitura entravano in scena le “spigolatrici”, giovinette autorizzate a raccogliere, nei campi appena mietuti, le spighe rimaste a terra. Lo facevano non senza fatica, ma era tanta la loro la carica di vita della loro età che il percorso lo riempivano e ingentilivano con canti inneggianti all’amore e ai sogni nascenti. Tra esse quasi sempre, e non certo casualmente, si inseriva una donna matura a mo’ di guida ma, più che altro, per tener “distrattamente” sott’occhio tanto ardore onde evitare imprevisti di percorso! ”Cama” e rimasugli di paglia, raccolti in grossi panni di iuta, venivano  trasportati, sulla testa, dalle donne di casa e svuotati nei pagliai sovrastanti le stalle.  Mietitura voleva dire “grano”, grano  da portare in paese, a casa, per ripulirlo, con “le pellìcce”, da corpi estranei, poi lavarlo e stenderlo  al sole, su grossi panni, ad asciugare. Una volta asciutto, tornava nei sacchi  per essere trasportato al mulino e macinato. Una volta macinato bisognava raccogliere, in sacchi a tessitura fitta, la farina e rifare il percorso inverso: dal mulino alle case dove, di volta in volta, si sarebbe proceduto, col “setàccio”, alla separazione del fiore della farina dalla crusca. Il primo sarebbe stato usato per pane, pizze, dolci e primi piatti faticare? Potremmo dire per vivere e sopravvivere, ma non sarebbe tutto e neppure completamente giusto. Si faticava tanto e, certamente, per poter avere risorse alimentari, per non mancare di risorse nella brutta stagione, ma anche per qualcos’altro. C’era un momento, atteso per un intero anno, che aveva del miracoloso: accadeva qualcosa che riaccendeva entusiasmi spenti, rinvigoriva le stanche membra, restituiva elasticità alle gambe e frenesia al cuore.  Iniziava tutto alla fine della trebbiatura, sull’imbrunire, quando un venticello “stuzzicarello”, come cantano i romani, un “ponentino”, invogliava gli uccelli a rincorrersi e gli umani a rilassarsi e dar vita a pensieri d’amore nell’attesa dell’arrivo delle donne recanti, sulla testa, un grossi cesti contenenti vivande per una serata speciale: “la rembrènna[2]. Venivano dalle case dei proprietari del grano e, dietro di loro, incedendo con altrettanta maestosità, facevano l’ingresso nell’aia  le comari di una vita con altro ben di Dio e bariletti di vino. Si avvertiva un non so che di solenne, quasi di religioso, nell’incedere di quella piccola processione: dapprima un profondo silenzio, poi l’esplosione  di un applauso davvero liberatorio. In un baleno l’Aia si trasformava in “tavolata” e su di essa appariva, miracolosamente, tanto insperato ben di Dio. Tutt’intorno, pur nel silenzio del momento, palpitava e si avvertiva tanta vita in ebollizione, solleticata da promiscuità formalmente non consentite, ma, di fatto, volutamene ignorate. Ad animare di più il tutto c’erano cibarie, vino, canti, suoni… e poi balli…! Di quella nottata nell’aia si sarebbe parlato e narrato, fantasticato anche, e ogni volta arricchendo il tutto con aggiunte in libertà, suggerite dal momento e da talune presenze. Sarebbero riecheggiate fino a tarda notte le note di strumenti caserecci e cori improvvisati; per diversi quei suoni e quei cori sarebbero diventati colonne sonore di nascenti amori.

Qualche settimana fa, a Campo di Fano, si è appena rivissuta la “Sagra dell’aglio rosso di Sulmona”. Clima stupendo, partecipazione straordinaria: tanto pubblico, tanta promiscuità, tanta varietà di età, provenienza, ceto. E’ stata la 27° edizione, la prima appartiene, ormai, al secolo scorso. C’era anche allora tanta gente, musica dal vivo, voglia di ballare. La faceva da padrone il liscio e le coppie che, instancabili vi si cimentavano, avevano, nella vivacità e passionalità delle movenze, qualcosa che ti riportava all’Aia di un tempo. Anche gli odori, che riempivano gli spazi esterni alle cucine, quelli circondanti la piccola scuola del borgo, ricordavano le nonne e, al solo immaginarli, lasciavano pregustare e assaporare piatti senza tempo e con tanta storia. Ripassando quest’anno, sul tardi, per Torre dei Nolfi, ci siamo fermati ad ammirare i giochi di luci che abbellivano un po’ tutto, ma soprattutto i ballerini. Erano schierati a mo’ di compagnia militare, in un ballo di gruppo. Stavano danzando più persone, uomini e donne, distanziati l’uno dall’altro  all’incirca di 60-70 centimetri, in più file di almeno 10 unità per fila… La danza era  un muoversi, a ritmo, con piccoli passi ora da un lato, ora dall’altro, ora in avanti, ora all’indietro. Il corpo dei ballerini, ondeggiando a tempo, accompagnava con flessuosità elegante della testa e delle braccia il ritmo ondeggiante della musica. C’era quell’eleganza che appartiene alle scuole di ballo, niente di improvvisato, niente di spontaneo. Anche i visi dei ballerini e delle ballerine, gente comune del posto e di fuori, mantenevano una identica espressione e sembravano occupati, e preoccupati, nel contare qualcosa, forse i passi, e nell’ essere perfetti nelle girate in un senso o nell’altro  e nei  cambi di postura. Nulla da eccepire: tutto ben organizzato e curato, preciso e perfetto, quasi impeccabile, ma altra cosa rispetto a quelle serate estive sull’Aia. Mancava il suono tremulo della fisarmonica e dell’organetto, mancava il tamburello, il pizzicato della chitarra, il lamento stridulo del violino e il vibrato del mandolino. Soprattutto mancava il frinire delle cicale che di notte, nell’Aia, si confondevano e perdevano tra i tanti sospiri e i dolci lamenti dell’amore.  Delle Sagre di paese resta senz’altro il ricordo; delle “Rembrènne” nelle Aie di paese davvero tanta, ma proprio tanta nostalgia!

 

N.B.

– “Manuòppele”: fasci di spighe mietute e da poter tenere sotto un braccio; “Covòni”: cumuli di “manuòppele”, ben asserrati,i ai bordi dell’aia, in attesa della trebbiatura

-Rrembrenna o rembrenda: letteralmente il via vai di “bigonci”(brènta”) di vino portati a spalla,

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