HomeLa Rivista“FARE O NON FARE?”

“FARE O NON FARE?”

Il Dubbio / 100

“FARE O NON FARE?”

di Enea Di Ianni

L’essere umano, ogni essere umano, ama legarsi a qualcosa durante il suo vivere e lo fa, da sempre, con tanta naturalezza che quasi manco se ne accorge più. Agisce come fosse istintivo quel gesto, quell’attenzione, quella cura e invece non si tratta di un agire istintivo, ma relazionale-affettivo per niente scontato e diverso da soggetto a soggetto.

Non ci interessa tanto domandarci da cosa dipenda questo cercar legami, ci interessa, invece, constatare  che, come esseri umani, siamo naturalmente portati a costruire rapporti, a tessere legami, ad affezionarci.  Sicuramente la spinta dei bisogni non è cosa da poco e il fatto che si nasca, ciascuno di noi, non autosufficienti ci pone, tutti alla mercé di tutti, per esempio degli adulti della nostra specie.

L’ “altro” ci occorre, ci serve soprattutto per poter sopravvivere, ma anche per acquisire  capacità e abilità, per sperimentare l’ambiente nel quale siamo inseriti e, allo stesso tempo, per agire su di esso modificandolo a nostro beneficio. E questo noi lo faremmo anche se nascessimo in condizioni da poter bastare a noi stessi. Sì, lo faremmo perché, dovendoci muovere in un contesto per noi nuovo, ci vedrebbero comunque impacciati e noi ci sentiremmo sollecitati dentro, intelligentemente, ad osservare gli altri, quelli simili a noi, per poter assumere comportamenti a modo, adeguati alla situazione e al luogo.

E’ sotto gli occhi di tanti il condizionamento operato, oggi, dalle innovazioni tecnologiche. Se ciascuno di noi si limitasse solo ad imitare l’altro, le useremmo tutti alla stessa maniera e tutti saremmo un esercito di robot umani.

Invece così non è. C’è una variabile molto importante che, alla fine, evita il livellamento: la variabile è “come” ciascuno di noi “gestisce” e “finalizza” l’osservazione dell’altro.

Tanti oggetti in uso giornalmente e davvero utili al vivere e al sopravvivere pacifico basta poco, un niente, per renderli “strumenti di non vita”. La stessa automobile, impeccabile per condurci piacevolmente da un luogo all’altro, si fa oggetto di incubo se messa nelle mani di chi è sotto l’effetto di alcool o psicofarmaci.

Anche il docile bidente, tanto utile a dissodare zolle di terreno, indurite dal sole, per renderle fertili, sì è trasformato in arma micidiale quando a gestirlo è stata la follia e la cattiveria.

Oggi sembrerebbe che alla tecnologia digitale si possano riconoscere solo effetti positivi, utilità ed efficacia. Certamente i telefonini affascinano, sono veloci, vivaci, colorati, rispondono così bene alle nostre richieste che, addirittura, riescono ad  anticiparle, come se leggessero il nostro pensiero.

Sono veloci: un tic e il messaggino dell’innamorato che chiede a lei “Esci?” è già andato, è stato letto ed è tornato: “Sì… con te

Che figata! Tutto fatto senza arrossire, senza aprir bocca, senza guardarsi negli occhi, ma solo tic-toccando.

Far salti di gioia? No, sarebbero inutili perché il problema vero comincia ora, col ricominciare del ticchettìo. “Dove si va?…”Dove vuoi…!

Il mondo dei ragazzi, in fondo, è lo stesso in cui siamo anche noi, solo che per loro si fa più piccolo. I luoghi abituali, quelli di frequentazione, sono significativi se si “sniffa”, se ci si può “beccare” ed è possibile “drinkare…”.

Il “giovalinese” è bello e più o meno tutti abbiamo provato ad inventare sistemi espressivi un po’ settari, quel tanto da poter tener fuori gli adulti del nostro tempo. Ne avevamo qualcuno anche noi, i “montanari” di periferia e, quando ne facevamo sfoggio, la perfezione di pronuncia dei suoni e la velocità di esecuzione erano armi micidiali: ”Dosòvese casàzzoso tisì esérisi casacciasàtasa?” E lei, meravigliata per la domanda inopportuna, con sguardo dolce, ci tacitava subito: “Eserasavasàmoso tusùttese asàllasa chiesésasa asà casantasàrese…!”

C’era di diverso  che noi non “postavamo”, ma ci “beccavamo”; facevamo anche noi “casino”, quello che i ragazzi d’oggi chiamano “bordello”. Noi avevamo le cicche e anche  loro ce l’hanno.

C’è che noi, però,  non disponevamo del “digitale”, loro, invece, sì. E il digitale non è cosa di poco conto, ma è un gran potere, può far miracoli, davvero tanti miracoli… Sì, può fare miracoli, è vero, però può anche distruggere gli umani senza che loro stessi se ne rendano conto. Si tratta di capire e decidere se intendiamo “noi” usare il digitale o lasciare che il digitale “usi” noi.

Gli effetti negativi non facciamo fatica a coglierli e non vorremmo ripetere, parafrasando l’Alighieri, che galeotto fu il palmare e chi lo fece…

Certo è che il primo grande furto a lui attribuibile, sotto gli occhi di tanti, è che per suo merito (o demerito?) sta morendo il piacere della “chiacchiera”, quel parlar tanto per parlare, di tutto e di tutti. I giovani non usano parole, suoni verbali, loro hanno le loro di vetrine e in quelle vetrine sanno di essere sotto lo sguardo di tanti, di troppi. Messaggiano ricercando frasi ad effetto, inviando immagini, cuori, freccette, suoni. Di tutto di più, ma la chiacchiera è un’altra cosa! La chiacchiera si colora dell’espressività dei diversi interlocutori, della freddura che ci ficca dentro il Pierino della compagnia e della riflessione, inopportuna e puntuale, che il saggio del gruppo ci infila senza chiedere il permesso di farlo. La chiacchiera è un cortometraggio tra amici, con regista un po’ tutti.

Il copione non c’è e nemmeno la trama perché si vanno costruendo a più mani, anzi a più voci. Attori e regista si divertono nella chiacchiera, divertendosi scaricano tensioni e preoccupazioni, rinsaldano legami, riequilibrano rapporti, rattoppano vecchi sgarbi e legami sfilacciati.

Il digitale non è quasi mai un parlare per se stessi  perché è sempre  un voler “dire a tutti” e, soprattutto, non interessano le risposte né quelli che rispondono, ma solo “il quantum”  delle visualizzazioni.

Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, ritiene, giustamente, che la tecnologia non è né buona né cattiva, come del resto tutto ciò che l’umanità è riuscito a inventare. Le cose in sé non sono mai buone o cattive, dipende sempre dall’uso che se ne fa.

E l’uso dipende dall’uomo, dall’essere umano. Solo l’uomo può volgere in bene o in male tutto ciò di cui si serve. Un consiglio autorevole? Eccolo:

c’è un’età in cui si può essere  autonomi nella gestione delle tecnologie, ma c’è anche un’età in cui tale autonomia non ha proprio senso di esserci, anzi dovrebbe proprio non esserci e cedere il passo alla “chiacchiera”. O no?

Basta riflettere su dei dati oggettivi e scientifici per consentire a ciascuno di noi di trarre le proprie considerazioni:

  1. oggi, a 2 anni, il 38% dei bimbi gioca e guarda video (e quando lo fa, non parla!),

  2. oggi, sotto gli 8 anni, il 63% di bimbi e ragazzi utilizza quotidianamente smartphon e tablet (da soli, a tu per tu con lo strumento e continuando a tacere. Smanetta e tace!),

  3. oggi, tra i 5 e i 13 anni il 44% dei ragazzi naviga abitualmente (va liberamente, e in solitudine,  alla scoperta di lidi anche strani).

Preoccupa di sicuro quello che bimbi e ragazzi possono fare, ma, ancor di più, preoccupa quello che i genitori non fanno!

Nessun Commento

Inserisci un commento