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VACANZA DI CARNEVALE: SENSO-NON SENSO ?

Il Dubbio  /  96

VACANZA DI CARNEVALE: SENSO-NON SENSO ?

di Enea Di Ianni

 “Carnem levare!”, proprio così: togliere la carne dai nostri pasti quotidiani. Per quaranta giorni – ovviamente anche notti! – eliminare tutto ciò che sa o che ha a che fare con il “grasso” e tuffarsi, per quanto possibile, nel “magro”.

Dico “per quanto possibile” perché un tempo “magro” voleva intendere cibo povero, povero di consistenza calorica e di costo. Per molti significava anche tanti digiuni che non erano una novità per quella stagione.

E’ difficile, molto difficile, riuscire ad immaginare il significato di “fame”, fame vera che. pure, tanta umanità ha provato e, ancora troppa, continua a sperimentare. Il “martedì grasso”, ultimo giorno del Carnevale, chiudeva la normalità e apriva all’esperienza della sofferenza del Cristo e alla sua morte sulla croce. Sofferenza voleva e doveva significare, per gli umani, anche astinenza, ricusazione dei piaceri in genere e di quelli della gola in primis, essendo i più vicini alla quotidianità e più comuni a tutti: astenersi e provare a degustare il digiuno.

Ovviamente se il giorno delle Sacre Ceneri  avviava il tempo della penitenza, il martedì grasso concludeva la normalità e, come spesso accade, ci si poneva di tutto punto nel concentrare, in quella giornata, ogni possibile godimento, compreso il camuffarsi sotto mentite spoglie, il mascherarsi per poter essere liberi al massimo nel dire e nel fare senza essere riconosciuti. Sotto “mentite spoglie” ci siamo sentiti, tutti, un po’ più liberi e stravaganti, abbiamo fatto e detto cose che, se avessimo dovuto metterci la faccia, non avremmo, forse, mai fatto e detto.

Ci siamo abbandonati a scherzi e a burle riscoprendoci, fortunatamente, ancora bambini, capaci di sorridere nell’accorgerci di come e quanto ci si possa sentir “leggeri” dietro il velo di una maschera. Anche per questo ci siamo dati sempre più da fare nel rendere il martedì grasso  ufficialmente aperto ad accogliere lo sfilare di bambini e bambine, ragazzi e ragazze in maschera e sorridere al loro lancio di coriandoli e non solo!

A livello alimentare Quaresima voleva dire cibi più poveri, meno calorici e anche meno costosi e abbondanti. Le aringhe e il baccalà, insieme ad alici, sardine, tonno in scatola e formaggi, la facevano da padroni in quelle giornate perché avevano  costi accessibili a tanti e, devo ammetterlo, anche una gustosità davvero particolare.

La genialità delle nostre mamme sapeva dar vita a manicaretti mai dimenticati e che, al solo ricordarli, evocano sapori e profumi mai più scordati. Penso al “baccala”, la cosiddetta, allora, carne dei poveri…! Appiattito in scatoloni di cartone e sbiancato da abbondanti residui di sale, il baccalà non faceva, alla vista, una bella figura. Ma bastava poco, davvero tanto poco, a renderlo pregevole nell’aspetto e straordinariamente gradito nelle varianti di preparazione che, in ogni famiglia, erano di casa.

A bagno per qualche giorno, in acqua fredda, recuperava consistenza e spessore presentandosi, così,  con una morbidezza tutta sua.

L’abilità delle donne di allora, impagabili per pazienza, ingegno e capacità culinarie, si apprezzava al momento in cui, con chirurgica maestria, operavano il distacco, dal bianco della polpa, del grigio-verde della pelle. E la pelle la consegnavano a noi piccoli perché ne facessimo l’uso più giusto e, allora, facilmente prevedibile. Noi collocavamo quella morbida “scorza” sulla griglia di una minuta graticola, rialzata di poco sopra roventi carboni, e assistevamo al miracolo del suo arricciarsi su se stessa, indurirsi quel tanto che bastava a renderla particolarmente croccante. Qualcuno ci aggiungeva, avendocela, una lacrima d’olio; i più la poggiavano sopra una fetta di pane e la sgranocchiavano con un gusto che non so dirvi.

Un cilindro di appena cinque-sei centimetri di lunghezza e uno e mezzo, di diametro era sufficiente ad accompagnare la degustazione di una fetta di pane e misura di palmo di una mano di adulto.

Le trasformazioni di quel baccalà non ci hanno più abbandonato e, ogni volta che proviamo a ricordarle, tornano a materializzarsi al punto da farci risentire odori e sapori specifici delle diverse tipologie di cottura: baccalà fritto, arrostito, al sugo, fritto in pastella, col peperoncino, a polpette. E, con quella varietà, sempre gli stessi contorni: quelli: patate, cavoli, cavolfiore, rape.

Curiosando nel reparto “alimentari” di uno dei nostri mega-store attuali, ho provato un ritorno di fiamma e mi sono tuffato nella ricerca di quell’alimento tanto caro e tanto presente nei miei ricordi quaresimali. C’era, anzi, c’erano diversi tipi di baccalà e tutti, all’apparenza, uguali. C’era quello salato e quello salato ed essiccato, quello bianco e quello color paglia, quello norvegese e quello islandese. C’era anche il baccalà di Spagna, quello dei Pirenei. Erano davvero tanti, troppi per non confondermi e riuscire a scegliere bene, ma, soprattutto, eccessivi per una Quaresima di penitenza.

Fuori dal mega-store ho immaginato le piccole botteghe di un tempo, quelle dove il baccalà era uno, almeno così pensavamo  tant’è che quando abbiamo scoperto che si trattasse di un merluzzo in salamoia ci siamo rimasti male per un bel po’.

Proprio come sono rimasto male, all’uscita del mega-store, nell’apprendere che l’ultimo giorno di Carnevale, il martedì grasso, le scuole sarebbero rimaste chiuse, silenziose e vuote, pulite, linde, ma chiuse, private di quel variopinto momento di socialità creativa capace, sempre e per davvero, di coinvolgere e affiancare socialmente genitori, alunni, insegnanti e collaboratori. Finalmente tutti  insieme in una scuola addobbata a festa, a festa vera, capace di mettere al bando le maschere del mondo fittizio della pubblicità per dare spazio alla fantasia e alla creatività e tornare all’ impegno artigianale, quel fare insieme capace di dar vita a maschere non soltanto originali, ma identificabili con quei bambini, quei genitori, quegli insegnanti, quei collaboratori, quella realtà. Insomma un martedì grasso scolastico impegnato a dar voce, attraverso la maschera, al mondo interiore dell’infanzia e consentire, a scuola e famiglia insieme, di provare a leggerlo, quel mondo per cogliere risorse e debolezze, paure e simpatie, immaginazione e autonomia.

Se è vero che da adulti si è tutti  un poco “uno, nessuno, centomila”, da bambini no. Da bambini si è solamente  “padre dell’uomo”, come diceva Maria Montessori. Permettere al bambino di oggi d’essere il padre di un brav’uomo domani, vuol dire anche saper immaginare, educativamente, un martedì grasso di Carnevale a dimensione non di adulto, ma di infanzia e, magari, lasciare che quel giorno le scuole dell’infanzia e le primarie possano tornare a risuonare delle voci festanti di bimbi e ragazzi in maschera insieme a docenti, genitori e collaboratori.

Anche perché se dietro una maschera ciascuno di noi si sente più libero nel dire e nel fare  e se è così per piccoli e grandi, non è un’occasione importante, il martedì grasso, per provare a rendere più autentici i rapporti educativi a scuola tra docenti, genitori, collaboratori e alunni?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualcuno gli segnala la posizione conquistata, qualcun altro lo premia.

 

 

 

 

 

 

                              [1] “Post prandium stabis, post coenam ambulabisovvero “dopo pranzo riposa, dopo cena passeggia!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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