Il Dubbio. 95
EMOZIONI O MONACHINE?
Non vado a letto presto la sera ed è così da sempre, tranne che in occasioni particolarissime come, ad esempio, l’aver affrontato un lungo viaggio alla guida , magari, vissuto col timore di poter sbagliare itinerario.
Il silenzio notturno mi è gradevole perché riesce a farmi sentire in uno stato ovattato, protetto tutt’intorno come in una sorta di riserva fisico-emozionale.
Al di là di questo, è capitato diverse volte che in talune nottate io sia rimasto in attesa del sonno e il “Morfeo” di turno abbia indugiato più del solito.
In quelle occasioni, il pensiero si mantiene sveglio e cosciente come non mai e attivamente impegnato in una sorta di “riordino” del grande magazzino della memoria.
Proprio come può accadere riordinando casa, un ambiente, un mobile la libreria dello studio, un baule in soffitta, la sorpresa è quella di ritrovarti faccia a faccia con ricordi dimenticati, risalenti a momenti della tua vita che, senza volerlo, si erano eclissati e che, in mancanza di qualsivoglia motivo preciso, senza alcun pretesto, ora, nel silenzio della notte, di “quella precisa” notte insonne, non solo incombono, ma fanno sì che ti rallegri con te stesso per averli ritrovati.
Sono scintille, barlumi che si accendono nel buio della coscienza e tornano ad esserci con lo stesso fascino, forse di più, di quando li hai vissuti. Sì, perché aggiungono alla bellezza del ricordo, la sorpresa nel saperli ancora “tuoi”, solamente tuoi. E’ immediata una sorta di benessere che ti invade non appena quelle immagini si snodano, come in un film, al rallentatore e tu avverti che non solo ti appartengono, ma che non ti arrecano noia rivivendole perché ti accorgi che vanno arricchendosi di coloriture, di sensazioni, di effetti speciali che, prima, non gli avevi attribuito.
Qualcuno potrebbe domandarsi cosa può dare di più un momento di vita già vissuto che torna alla memoria rispetto alle emozioni di allora, di quando lo stavamo vivendo?
E’ difficile spiegarlo, ma ci provo. La vita ciascuno di noi la conosce vivendola, così come un atleta di nuoto vive una gara importante. Questi, la gara, la vive nuotando, facendo qualcosa che, in fondo, fa sempre. Mentre sta gareggiando, è tutt’uno con l’acqua e non solo perché vi è immerso, ma anche perché è impegnato a superare la resistenza che l’acqua gli oppone facendo attenzione, contemporaneamente, a ciò che avviene intorno a lui e cercando di non perdere mai il collegamento mentale con tutti quelli che stanno vivendo lo stesso suo momento e con la stessa finalità: superare gli ostacoli e, possibilmente vincere o ottenere un buon piazzamento. Poi tocca la meta e riemerge. Sa di essere arrivato a destinazione e comincia ad accorgersi di quello che è accaduto intorno a lui. Il pubblico, la gara, il podio sono la vita, vita vissuta quel giorno, in quel luogo. A casa, poi, capita che un giorno, si ritrovi di fronte ad un filmato di quella gara con inquadrature allargate sulle corsie solcate da tutti gli atleti in gara con lui e con inquadrature parziali di pubblico che tifa, sostiene e spera.
Quelle immagini hanno la forza e la bellezza di restituirgli momenti che pure aveva vissuto, ma li aveva memorizzati dalla sua parziale e incompletaangolatura. Guardare il tutto un po’ da protagonista e un poco da spettatore: le emozioni si modificano e si colorano diversamente. Soprattutto si arricchiscono di una tenerezza bella da provare, ma impossibile a dirsi. E’ una strana sensazione che prende tra lo stomaco e il cuore, una specie di solletico interiore che pure è compagno di tanti momenti particolari di vita, che riconosciamo appartenerci ma che, coscientemente, non siamo mai riusciti a “riprovare”, a comando, a rivivere per nostro volere.
…Sono in taverna, a giocare con Ginevra e Beatrice, le mie nipotine; fuori è freddo, i “giorni della merla” la fanno da protagonisti. Le bimbe, di quattro e due anni, non sanno cosa sia la stanchezza e nemmeno che voglia dire “post prandium” [1], quello adorato dagli antichi romani ma che è fatto da conversazioni libere su tematiche varie: sono colloqui a due, massimo a tre e che non interessano le bimbe. Loro sono attratte dal fuoco che arde nel camino e che cerco di ravvivare perché ci dia, oltre che calore e colore, anche il piacere della fiamma.
Sono incantate ad assistere al mio “attizzare”, l’arte di colui che fa sì che il fuoco si ravvivi e la fiamma la faccia da padrona. Ci sono gli attrezzi, c’è la legna, c’è la mia arte e poi… Sì, reazione alla mia provocazione, c’è un volare festoso, verso la parte interna del camino, di una ricca processione di scintille dorate. Davvero tante e stimolate tutte dal mio “attizzare”.
Le nipotine incalzano: “Nonno, cosa sono?… Sono stelline, è vero?… E dove vanno?… E perché corrono?”
In un attimo mi piovono addosso tutte le domande che, di solito, si pongono, una alla volta, gli studiosi e alle quali, poi, cercano di rispondere “sperimentando”, facendo ipotesi e verificandole.
Ginevra e Beatrice attendono risposte che non ho, ma che devo dare rispettando la loro età, non mortificando la loro curiosità e stimolando la loro fantasia: “Sì, sono tante stelline, stelline che il fuoco manda in dono al cielo, soprattutto d’inverno, così gli angioletti possono scaldarsi…”
“E in cielo poi rimangono con le stelle?” E’ la domanda che Ginevra mi fa, ma che incuriosisce anche Beatrice. “Bravissime, proprio così: diventano stelle piccole piccole…!” Sono paghe le bimbe e intanto si cimentano a contarle, le scintille, a farle uscire dalla legna che arde.
Intervengo: “Dimenticavo di dirvi che quelle scintille si chiamano monachine”.
Aspetto che arrivi il loro “Perché?”, invece giunge direttamente la risposta da Ginevra: “Perché, come le monachelle, vogliono andare in cielo… Da Gesù!” Rimangono a giocare un bel po’, instancabili nel tessere storie e storielle intorno a quelle “monachelle” e, intanto, la loro fantasia cammina, gli occhi scrutano, le mani si danno da fare con i piccoli attrezzi da camino, le gote si lasciano piacevolmente colorare di rosa, un rosa vivo.
Mi rendo conto che, senza saperlo, stanno coltivando l’arte del sentire, quell’arte che mette il cuore nella condizione di essere “apprendista” e imparare ad usare la sua intelligenza, quella del cuore e che ha a che fare con le emozioni: a non respingerle, ma ad accogliere le opportunità che esse ci offrono [2].
I bambini sanno già farlo di loro, dobbiamo solo non deviarli, non distoglierli da quel cammino, ma sostenerli. In che cosa? Nel divenire abili nell’uso del linguaggio del corpo, nel sentire, nell’ascoltare il corpo che ci parla per mezzo dei sensi, attraverso le emozioni.
E’ importante saper ascoltare le emozioni. E cosa sono le emozioni se non scintille, barlumi che si accendono nel buio della notte e tornano ad esserci con lo stesso fascino, forse di più, di quando li abbiamo vissuti?
Le emozioni sono “monachine” che schizzano improvvise, brillano un attimo e poi si spengono verso l’alto. Sono anche ”monachelle”, come le ha chiamate Ginevra, monachelle che, dal cuore, tornano a dialogare silenziosamente con noi. Silenziosamente e, spesso, di notte, quando non si riesce a dormire e la tenerezza può essere ancora di casa nell’animo di ciascun essere umano.
[1] Vedasi B. ROSSI, Avere cura del cuore. L’educazione del sentire, p. 101
Qualcuno gli segnala la posizione conquistata, qualcun altro lo premia.
[1] “Post prandium stabis, post coenam ambulabis” ovvero “dopo pranzo riposa, dopo cena passeggia!”