HomeLa RivistaGILLES VILLENEUVE E IL SENSO DELL’EPICA

GILLES VILLENEUVE E IL SENSO DELL’EPICA

I POST della settimana /47

GILLES VILLENEUVE E IL SENSO DELL’EPICA

L’8 maggio di 40 fa se ne andò Gilles Villeneuve, il pilota che più di tutti aveva saputo dare alla Formula Uno quel senso dell’epica, dell’audacia e – a modo suo – dell'”eroismo” che poi sarebbe piano piano scemato. Pur avendo vinto molto meno di quello che meritava penso che ben pochi siano rimasti come lui nel cuore dei tifosi della Ferrari. Il Direttore di Autosprint Andrea Cordovani, forse ricordando la contiguità che ebbi con Gilles, mi ha chiesto di dedicargli un ricordo. Che ho fatto con qualche pudore, ma con tutto il cuore. Il bellissimo disegno è ovviamente di Giorgio Serra che con con me condivide un certo tipo di sentimenti

—————-

Solo l’umanità di Matitaccia poteva ammantare di leggerezza una storia, un ricordo, una data e soprattutto un nome che ci fa male soltanto a ripetere: per quanto ci abbia fatto bene pronunciarlo per i nemmeno cinque anni che lo abbiamo conosciuto. Gilles era fantasia, Gilles era talento, Gilles era coraggio, Gilles era “nuvolarismo”, Gilles era Davide che prendeva a sportellate Golia, Gilles era sfacciataggine, Gilles era mani fra i capelli, Gilles era braccia e pugni protesi verso il cielo, Gilles era uno di noi, Gilles era un’imprecazione e un grido di battaglia, Gilles era gioia, Gilles era orgoglio, Gilles era follia, Gilles era tenacia, Gilles sfidava gli aeroplani, Gilles era una freccia rossa scoccata verso il cielo, Gilles era un graffio alle convenzioni, Gilles era quello che aveva fatto tornare al Vecchio la felicità di passare la sua mano fra i capelli di un pilota, Gilles era destino. Gilles era Gilles! Punto! Anche se ha vinto la decima o forse anche la ventesima parte di quello che un Fato ingiusto e anche stupido gli ha tolto.

Gilles era quel ragazzo timido e curioso con la tuta sdrucita che vidi a Fiorano (ed eravamo in pochissimi) il 21 settembre del 1977 e provò per la prima volta una Ferrari che gli andava larghissima. L’avrebbe portata in pista meno di tre settimane dopo al posto di Lauda ormai in rotta di collisione col Drake. Era spaesato: forse incredulo. Ma terribilmente determinato. Aveva una “divisa” arancione improbabilissima. Gli allestirono una T2 adattandola al suo metro e sessanta scarso. Fece subito capire chi era. L’agenda di Ferrari per sostituire Niki portava quattro nomi: Mario Andretti, Jody Scheckter, Patrick Tambay e, appunto, il giovane Villeneuve (segnalatogli da Chris Amon e dal figlio di un ingegnere suo amico). Qualcuno spingeva anche per Cheever e Patrese. Il favorito era Scheckter (che in effetti sarebbe arrivato poco più di un anno dopo), ma la Wolf non lo lasciò libero.

“E allora mi chiami questo numero in Canada” intimò Ferrari a Ennio Mortara, suo strettissimo collaboratore. “Parlo col signor Gilles Villeneuve? L’ingegner Ferrari mi ha incaricato di chiederle se vuole correre per lui”. Silenzio….

Gilles arrivò alla Malpensa in gran segreto. Poi subito a Modena, nella vecchia sede di via Trento e Trieste. “Quanto vuole per essere felice?” gli chiese Ferrari. Lo avrebbe amato come un figlio

Il resto è leggenda

Una leggenda volata via troppo presto. Fra i ricordi più struggenti della mia carriera professionale c’è anche un altro 8 maggio: quello di 37 anni fa quando andai all’autodromo di Zolder assieme a Ercole Colombo, mago dell’obiettivo. Con lo scopo di portare un mazzo di fiori nel punto dove tre anni prima, Gilles era morto. Ero inviato di “Autosprint” e del “Guerin Sportivo” di cui un po’ di tempo dopo sarei diventato direttore. Non so a quanti possono interessare, ma queste sono le prime e le ultime righe del reportage. Che scrissi col cuore in mano

“Quando, con un po’ d’emozione, ho varcato il cancello dell’autodromo, mi sono scoperto a guardare il cielo. Un cielo plumbeo, opaco, severo: proprio come quello dell’8 maggio del 1982. Quel cielo che fu sicuramente l’ultima immagine di vita rubata dagli occhi di Gilles. Quel cielo al quale tanta gente alzò lo sguardo anche allora, invocando una risposta. “Ma quanto sono lunghi tre anni” mi chiedevo entrando nel paddock abbandonato e innaturale come il mare d’inverno. “Quanto sono realmente indelebili certi ricordi?” “Quanto può essere “definitiva” l’immortalità?” “Quanto sa essere fedele la memoria degli uomini?”. In testa mille pensieri: tutt’attorno un silenzio innaturale, quasi religioso. E’ proprio vero: un autodromo deserto a volte dà l’idea di un’immensa basilica senza fedeli. Sa essere mistico e austero, rasserenante e oppressivo, sa tranquillizzarti e farti paura…. Saliamo in macchina per entrare in pista. Rallentiamo sulla discesina. Cerchiamo di immaginare i suoi ultimi momenti, il suo ultimo lampo di rabbia. Curva a sinistra quasi cieca. La macchina di Mass lentissima, involontario ostacolo sulla strada di un riscatto che Gilles non può e non vuole assolutamente rinviare. Sollevare il piede vorrebbe dire sconfessare, deludere, smentire se stesso. E Gilles non lo solleva. Sono le 13 e 52. Il cielo scende fino a lui e se lo porta via… Dove Gilles è morto – anche se in effetti la sua ormai incosciente agonia lo lasciò vivere fino alle nove di sera – c’è un prato trapuntato di fiori gialli. Rispetto alle immagini che tutti abbiamo ancora negli occhi lo scenario è leggermente mutato. Non ci sono le reti di contenimento contro cui si schiantò il suo corpo (posizionate solo in occasione dei Gran Premi), c’è ancora un vistoso rattoppo sull’asfalto nel punto esatto in cui precipitò il motore della sua Ferrari. Per il resto, stessa curva a sinistra (più dolce di quanto non c’è stato tramandato dall’obiettivo deformante di quella crudele telecamera che immortalò l’agghiacciante piroetta): stesso paesaggio, stesse terribili quinte. Tutt’attorno un’atmosfera che sembra per qualche attimo di pace e per qualche attimo di desolazione. Nel punto esatto dove il passerotto chiuse le ali e reclinò il capo posiamo il libro che in copertina porta la scritta “Gilles vivo”. E copriamo coi fiori quella piccola lapide di carta. Sono le 13 e 52 dell’8 maggio 1985. Colombo ed io ci guardiamo in faccia allibiti. Dal cielo parte un raggio di sole: l’unico di tutta la giornata”

( Marino Bartoletti – Facebook- 3/5/2022)

Nessun Commento

Inserisci un commento