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Trattori e bioregioni

 Il Limite /147

Trattori e bioregioni

di Raniero Regni

Le cronache hanno abbassato i toni e la protesta degli agricoltori con i loro trattori sembra passata oramai in secondo piano, spostandosi a Bruxelles. Per questo possiamo parlarne anche in questa rubrica. Quando il rumore dell’informazione è così grande è quasi impossibile farsi davvero un’idea di quello che sta accadendo. I contadini di un tempo, gli agricoltori di oggi erano e sono i più vicini alla terra, sono tra coloro che vivono fuori, più a contatto con la natura e più esposti al clima. Per questo penso che siano anche i più sensibili alle tematiche ambientali e alla crisi climatica.  È vero che sono degli imprenditori, che traggono il loro reddito dal lavoro dei campi e che quindi cercano anch’essi di massimizzare la loro utilità, aumentando i loro guadagni. È vero anche che gli agricoltori sono quelli che forse traggono meno profitto dalla lunga catena che porta dai produttori ai consumatori. È vero che il prezzo dei prodotti agricoli che alimentano la nostra tavola aumentano mano mano che si sale nella filiera, che spesso i più grandi guadagni sono quelli della grande distribuzione. È vero che la concorrenza dei prodotti esteri, spesso di minore qualità e con minori controlli sull’uso dei pesticidi e di tutti gli altri prodotti chimici che avvelenano spesso i cibi, è sleale e andrebbe invece contrastata.

Ma è altrettanto vero che la nostra agricoltura dovrebbe andare verso la produzione biologica estesa a tutto il settore agricolo. Tutte le forme di conversione alla produzione più ecosostenibile e sana andrebbero incentivate e sostenute. In questo gli agricoltori dovrebbero essere in prima fila.

Invece la disperazione li spinge a chiedere di mettere a coltura anche quel 5 % che viene imposto a riposo e vorrebbero liberalizzare completamente l’uso della chimica. Non tutti, non dappertutto, in ogni paese e in ogni ambito ci sono richieste diverse e l’analisi andrebbe  approfondita molto  Anche perché sarà l’agricoltura ad essere sempre più rapidamente danneggiata dal riscaldamento globale, dalla siccità e dagli eventi estremi. Per cui dovremmo prevedere provvedimenti di mitigazione di questi effetti e di adattamento, cambiando anche colture. E questo dovrebbe avvenire abbastanza in fratta. Ma intanto bisogna vivere e da qui la protesta generalizzata.

L’altro aspetto preoccupante è l’attacco al Green new deal voluto dall’Unione Europea ovvero l’auto-imposizione di una transizione ecologica verso tutte le forme di sostenibilità anche in agricoltura. In questo caso, si chiede una sospensione, una procrastinazione, a volte una negazione. Sono tutte strategie che sono state adottate in tanti settori per negare, ritardare con soluzioni non soluzioni, procrastinare, spostando in avanti il problema, rendendo sempre più grave il problema ambientale.

Per l’Italia, per le nostre regioni del centro e del sud, ma anche del nord, per i nostri borghi e comuni delle aree interne appenniniche, dovremmo guardare invece verso la prospettiva delle bioregioni. Secondo la Treccani, la bioregione è un’”area che contiene e circonda la città, intesa come oggetto di governo del territorio secondo un programma condiviso dalle comunità locali, basato sull’idea di crescita di un’economia compatibile con l’ambiente”. Uno dei suoi teorici, G. Moretti, così ne parla. “il bioregionalismo è la possibilità di rinnovare la cittadinanza nella Terra attraverso uno stile di vita che tenga conto della necessità e del diritto per tutti, umani e non-umani, di vivere una vita significativa”.

Le bioregioni sono “luoghi definiti per continuità di flora e di fauna o per interezza fluviale, grandi a sufficienza da sostenere un’ampia e complessa comunità di esseri viventi…il bioregionalismo non è una ideologia, ma un’attitudine di buon senso e di umiltà di fronte all’evidente divario tra la mente dell’umanità e la mente della natura”. L’idea potrebbe essere quella di soddisfare molti dei bisogni alimentari di una comunità sfruttando il più possibili le risorse locali a chilometro zero, creando filiere corte di produzione-consumo, creando marchi garantiti che proteggano la qualità dei prodotti locali. I quali forse costeranno di più, ma che saranno infinitamente più salutari ed ecosostenibili. Danneggeranno meno l’ambiente e la salute, finendo per essere in fin dei conti, meno cari.

Sento il ronzio delle obiezioni a questo discorso. Sento le critiche di ambientalismo. Come se occuparsi della qualità dell’ambiente fosse una specializzazione o, peggio, una fissazione personale. Mi viene da dire allora, come mi ha suggerito un amico, “Ti interessa la salute?”, “Sì”, “Allora sei un salutista!”. Tenere alla salute non è un’ideologia. Stesso ragionamento vale per la cura dell’ambiente. Mi interessa l’ambiente perché sono un cittadino.

 

 

 

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