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SON TORNATE A FIORIRE…” le Scuole?

Il dubbio / 120

Son tornate a fiorire…” le Scuole?

di Enea Di Ianni

La mia infanzia si divertiva, d’estate, a scrivere qua e là, su qualche parete liscia di casa diroccata, in paese, “Abbasso la scuola” e lo si faceva mettendo, davanti alla parola “scuola” una doppia  “vu” (W) rovesciata.

Sì, scritta sottosopra e che voleva significare proprio “Abbasso”, e non “Evviva”. Qualcuno osava addirittura scrivere “squola” con la “q”, anziché con la “c ”… Era, e voleva essere, quel gesto un inno alle vacanze, un inno che andava pian piano calando d’ entusiasmo sul finire di settembre.

Andati via gli ultimi villeggianti ( i turisti di allora!), in procinto, le rondini, a tornare a migrare, eravamo pronti anche noi ragazzi a ricominciare le fatiche scolastiche. Quasi quasi, anzi, le desideravamo.

Sì, desideravamo tornare a scuola, in classe, sui banchi bi-posto, rigorosamente in legno, con tanto di schienale e calamai, per poterci raccontare quelli che, pensavamo, fossero i nostri grandi segreti.

Ne avevamo di segreti perché tre mesi di vacanze erano tanti, ma davvero tanti giorni di libertà, di scorribande, di frastuono e, sì, pure di momenti di noia perché, alla fine, anche a giocare ci si annoia e noi lo sapevamo benissimo.

Per questo, forse,  gli ultimi giorni di libertà scolastica cercavamo di trascorrerli esercitandoci a riprendere dimestichezza col leggere e con lo scrivere. La raccolta delle ultime tardive more era l’occasione per provare a rodare la memoria bisbigliando, tra una siepe e l’altra, versi mandati giù durante gli anni trascorsi e intrecci di tabelline improvvisate all’istante.

Nessuno, salutandoci per le vacanze, ci aveva assegnato compiti: nessun diario né libro delle vacanze, nessun compio diario formale. Il nostro, di maestro, ci aveva salutato l’ultimo giorno di scuola raccomandandoci di “ubriacarci di aria, di sole e libertà”.

Che fosse un augurio gradito e recepito lo aveva sottolineato l’urlo di gruppo lanciato al cielo, in aria, sull’uscio del portone dell’edificio scolastico che ci lasciavamo alle spalle.

Così l’estate l’avevamo degustata attraverso variegati momenti di vita. Alcuni di noi avevano sperimentato un assaggio di mare con le colonie a “Stella Maris”, in quel di Silvi Marina, altri si erano tuffati nella natura affiancando gli “Scout” che si accampavano, ormai da qualche anno, nelle zone sul limitare del nostro paese, quasi ai confini col lago.

C’era sempre chi trascorreva una quindicina di giorni da qualche parente in città e c’erano, pure, compagni che approfittavano della lunga vacanza per tentare “assaggi” di mestieri, magari girando la “forgia”[1] dal fabbro, affiancando qualche esperto muratore locale nella manovalanza o, anche, tuffandosi nelle faccende di sagrestia e dando una mano al parroco nelle tante cerimonie religiose e festività estive.

La scuola chiudeva a giugno e riapriva ad ottobre. Durante l’anno scolastico, è vero, non c’erano i “viaggi di istruzione” di oggi, c’erano, invece, i “viaggi di fede” di allora, organizzati dalla parrocchia e con meta i piccoli santuari di culto. Non erano viaggi di istruzione? Non istruivano? Cosa gli mancava per esserlo?

Ai pellegrinaggi non mancavano di sicuro gli insegnanti e le madri che, strada facendo, gareggiavano orgogliosamente nell’indicare, per ogni luogo, le caratteristiche di ciascuno con  dovizie di particolari e aneddoti.

E, poi, che dire di quegli esempi eloquenti di educazione religioso-musicale-canora che  si offriva alla curiosità infantile proprio nei momenti  di accesso nei luoghi di culto?

Un bagaglio, grande, di cultura a buon mercato, fatto da immagini di luoghi, da sapori, da tradizioni, da notizie e canti.  E  che dire dei grandi momenti di immersione sociale tra fedeli di contrade differenti?

Cosa mancava a quella scuola?

Forse… può darsi che mancassero, a quella scuola,  le “progettualità” di oggi, forse pure le “esplicitazioni formali “di idee e di percorsi contenenti finalità rilevate come necessarie per consentire il sano sviluppo del soggetto e l’acquisizione, da parte dello stesso soggetto,  di quei fondamentali saperi (sapere, saper fare e saper essere) che vanno a dare un senso alla personale “condivisione socio-culturale”.

Può darsi, anche se non è mai scontato nulla nella vita.

Ma si è più vista quella sana, piacevole integrazione tra scuola e famiglie, tra scuola e comunità, tra tanti “diversi” come allora?

Certamente non si parlava, allora, di morfosintassi, di gradazioni apofoniche, di diagrammi di flusso…

Allora si parlava di soggetto, predicato e complementi, di attributi e apposizioni. Si coniugavano i verbi e si declinavano nomi, aggettivi, pronomi. Ecco: allora c’era in più l’uso dei vocabolari, di quello d’italiano, di latino, di francese o inglese o spagnolo o tedesco. Non c’erano i “sintagmi nominali” e i libri di testo non proponevano “box lessicali”.

Ad essere onesti non eravamo neppure capaci di realizzare in classe una matrice in excel degli argomenti trattati, però sapevamo cosa fare di una matrice una “matrice” da mandare in stampa a mezzo ciclostile.

E’ poca cosa? Ma noi avevamo davvero poco a scuola e i sussidi più gettonati erano la lavagna, il pallottoniere, l’alfabetiere murale, le carte geografiche fisiche e politiche, una radio, forse un registratore e, di straforo, magari una palla.

C’erano, però, dei libri che prendevamo a prestito e, per qualche settimana, ci facevano compagnia a casa o sull’uscio di casa.

No, non avevamo nemmeno la tv e non ne sentivamo il bisogno perché ascoltavamo il conversare dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei nonni dei nostri amici, dei vicini di casa e in quel conversare c’erano le notizie del giorno, le curiosità del momento, l’angolo del pettegolezzo e del vietato.

C’erano i racconti serali, stupendi e indimenticabili, del prima di andare a letto. Le previsioni del tempo? Sì, quelle c’erano, ma non a lunga gittata: massimo per due, tre giorni, giusto il tempo che si poteva rimanere in attesa, nel limbo, l’attuale “stand-by”.  Poi, tempo o non tempo, le urgenze avevano il sopravvento e bisognava tornare a darsi da fare tutti e ciascuno, a scuola e nel paese… Lo diceva anche una delle prime filastrocche apprese:

Alla scuola va il bambino, ai suoi campi il contadino;

va a bottega l’artigiano, sotto l’armi va il soldà:

pronti, attenti e con piacer  ognun faccia il suo dover !”

Ah, dimenticavo: in quella scuola si parlava e viveva anche di “doveri”.

 

[1] Forgia o fucina: apparecchio in uso dai fabbro-ferrai per rendere rovente un pezzo metallico al fine di poterlo     lavorare, forgiare, modellare, dargli una forma.

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