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Per un nuovo equilibrio tra testa, mano e cuore

Il Limite / 106

Per un nuovo equilibrio tra testa,  mano e cuore

                                                                                                                        di Raniero Regni  

 Il tema del lavoro è un tema eterno, dalla Bibbia alla rivoluzione industriale si ragiona attorno all’attività umana. Essa appare un destino della nostra specie. L’essere umano deve trasformare la natura per renderla adatta alla sua sopravvivenza, costruendosi un nido tecnologico attraverso la tecnica. Sì, il lavoro umano chiama in causa la tecnologia che il coordinamento della mano e della mente ha reso possibile. Tra i nostri progenitori troviamo l’Homo Habilis già più di due milioni di anni fa e quindi il lavoro appartiene alla natura umana. ma quale tipo di lavoro?

Se passiamo dalla preistoria alla storia, troviamo che il lavoro umano da una parte è stato esaltato e apprezzato, dall’altro almeno, quello manuale, è stato considerato inferiore. La grandezza umana è stata costruita dal coordinamento della mano e della mente, ma il lavoro manuale è stato considerato inferiore rispetto al lavoro intellettuale e proprio in quei periodi della nostra storia in cui la sopravvivenza dipendeva proprio dal lavoro manuale della maggioranza, essenzialmente contadini e artigiani. Spostare simboli, avere a che fare con le funzioni intellettuali, con la teoria, che contiene nel suo etimo qualcosa di divino, era considerato più nobile che spostare cose, sudando e faticando. E questo soprattutto nelle società greche e romane, che erano società schiavili, dove i lavori manuali più duri erano fatti da schiavi. Ma anche in età cristiana le arti liberali erano chiamate così perché essenzialmente libere dalla fatica fisica e dal movimento del corpo.

Oggi noi viviamo nella società della conoscenza, la risorsa più preziosa è il “sapere come si fa una cosa”, il know how e anche per questa ragione le professioni intellettuali, quelle ad alto valore aggiunto di studio e di scienza hanno acquisito un grande ruolo e un ancor più grande prestigio sociale. La classe della conoscenza fatta di manager, di ricercatori, di professionisti, di laureati e specializzati, autonomi e spesso globali, ha scalato la classifica dei redditi e la forbice delle retribuzioni ha cominciato ad allargarsi pericolosamente. È fuori discussione che sviluppare le conoscenze attraverso l’istruzione, alzare il livello di massa della scolarizzazione siano fenomeni positivi ma non sono tutte rose e fiori. La rincorsa a titoli di studio sempre più alti è diventata faticosa soprattutto per i meno abbienti. La diseguaglianza dei redditi è aumentata e questo rappresenta un problema grave per la stessa democrazia.

Poi, anche in questo caso, è arrivata la pandemia. Quella pandemia, che oggi è stata ufficialmente dichiarata conclusa dall’OMS, che ha fatto più di venti milioni di morti dal 2020, ha mostrato altre facce del lavoro. Ci siamo accorti allora quanto del nostro benessere o della nostra stessa sopravvivenza dipendesse dai fattorini delle consegne a domicilio, dagli autotrasportatori, dalle infermiere, dagli operai. Ci si è accorti di quanto le occupazioni più umili fossero indispensabili. La Mano (lavoro manuale/occupazioni di base) e il Cuore (lavoro di cura) hanno mostrato alla Testa (lavoro cognitivo) quanto fossero importanti, rivendicando la loro dignità e la loro retribuzione. Si è scoperto che la meritocrazia, che pone al vertice della gerarchia il lavoro cognitivo, dovesse avere dei limiti. Che non si dovesse puntare alla produttività ma che si dovesse ridurla: meno letti per ogni infermiere, non di più. Abbiamo riscoperto quanto del nostro benessere dipenda dalla carezza di una mano gentile.

Ma la pandemia è finita e molti vogliono dimenticarne la lezione. Invece andrebbe riconsiderato il rapporto tra Testa, Mano e Cuore. Chi scrive ha sperato che dalla crisi emergesse una società più gentile e premurosa, ma altri spingono invece verso una società più selvaggia e arrabbiata. È necessario che si instauri un equilibrio maggiore tra retribuzioni e prestigio dei lavori manuali e di cura rispetto a quelli intellettuali. Va ridimensionato l’eccesso di prestigio dei titoli di studio elevati. La classe cognitiva e il successo scolastico non bastano come criteri. La personalità, l’integrità, l’esperienza, il buon senso, il coraggio e la voglia di lavorare non sono affatto irrilevanti per tenere assieme una società. E questo anche per la ragione che non ci troviamo in una vera meritocrazia, perché il reddito familiare e il livello di istruzione dei genitori contano ancora come variabili decisive del successo sociale.

Ha ragione lo studioso inglese D. Goodhart quando scrive “la tendenza cronica a svilire le competenze della Mano e del Cuore ha turbato l’equilibrio delle nostre società e alienato milioni di persone”. Pensiero, manualità e sentimento non sono separati in ognuno di noi e dovrebbero essere in equilibrio dentro e fuori di noi.

 

                                                     

 

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