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Il sonno della Regione genera mostri

Il Limite 89

Il sonno della Regione genera mostri

 di Raniero Regni 

 Immerso nel silenzio della campagna umbra, solo apparentemente inanimata in inverno. La ruota della bicicletta percorre un tappeto ininterrotto di foglie secche di quercia dal bel colore ruggine. Altrettante foglie sono ancora al loro posto sui rami neri per un inverno preoccupantemente troppo caldo. Costeggio un laghetto immobile, la cui superficie è increspata dalla sola scia di un’anatra selvatica che nuota senza emettere suoni. Nel silenzio, dovunque giri lo sguardo, vedo solo colline, più lontano montagne e boschi che trascolorano nel cielo grigio di un giorno invernale che assomiglia ad una lunga sera. In inverno, la mia regione è una bella addormentata. La bellezza di questo paesaggio colpisce però in ogni stagione, in ogni condizione atmosferica, a dimostrazione che non c’è mai il cattivo tempo ma solo il cattivo umore.

Sì, sono nel cuore del cuore verde d’Italia, nel profondo centro. Eppure questa formula, ripetuta fino alla nausea nella promozione turistica dell’Umbria, mi indispettisce, ha il potere di intaccare il mio buonumore, perché appare ipocrita. Infatti il governo regionale, a dispetto degli slogan, che pure finanzia, lavora per aumentare il consumo di suolo, la cementificazione, lo sviluppo di imprese industriali pesanti e inquinanti, ad alto impatto ambientale. Le parole dicono il contrario di quello che la politica ha in mente di realizzare, ovvero un nuovo inceneritore per una regione piccola che ha poco più di ottocentomila abitanti e che si avvia ad andare oltre il 70% di raccolta differenziata dei rifiuti. Due cementifici, proprio nella mia città, due industrie di un settore oramai in crisi irreversibile, destinate dalla politica regionale a diventare inceneritori impropri, due bombe ecologiche in mezzo ai centri abitati, vicino a scuole ed ospedali. Invece di trasformare l’intera regione in un vero e proprio parco protetto e vincolato, destinato a zero consumo di suolo, con un’industria edilizia che dovrebbe riqualificare e valorizzare solo il già costruito, si rincorre ad uno sviluppo rapace, condannato comunque a finire in poco tempo ma capace di lasciare dietro di sé un terreno contaminato e uno strascico di malattie.

Percorro magnifici saliscendi naturali e penso alla bellezza che mi circonda, frutto di millenni di connubio tra essere umano e natura. Il paesaggio è infatti natura e storia, lavoro umano e vincoli ambientali che la società del passato rispettava e che quella moderna e contemporanea ha dimenticato. Cave e strade a scorrimento veloce, montagne divorate e matrici ambientali compromesse. Se le società antiche hanno lasciato dietro di loro delle rovine, che turisti da tutto il mondo corrono ancora ad ammirare, la nostra lascerà dietro di sé solo macerie.

Pedalo nella natura e mi sembra di vivere un brutto sogno nella storia. È proprio vero quello che diceva A. Camus, la storia è l’incubo da cui non è dato svegliarci. Abbiamo un paesaggio unico e si cerca di fare di tutto per distruggerlo, accampando le ragioni di un’economia di rapina, estrattiva in tutti i sensi, fatta da prenditori più che imprenditori. Ha ragione la filosofa statunitense Nancy Frazer, Premio Nonino 2022, a parlare di Cannibal Capitalism, come si intitola il suo libro più recente, presto in traduzione anche italiana. La contraddizione tra produzione e ambiente si aggrava sempre più, fino all’autodistruzione perché la società capitalista delega l’organizzazione della produzione al capitale, ovvero a chi si dedica alla sua accumulazione. È alla classe dei capitalisti che questa società consente di estrarre materie prime, produrre energia, decidere l’uso del terreno, organizzare la produzione alimentare, progettare medicinali, e liberarsi dei rifiuti: di fatto cedendo loro gran parte del controllo di aria e acqua, terra e minerali, flora e fauna, foreste e oceani, atmosfera e clima; cioè tutte le condizioni necessarie alla vita sulla terra. Le società capitalistiche, dunque, assegnano a una classe fortemente motivata a distruggere la natura, la responsabilità di gestire i nostri rapporti con essa. Sono state le aziende, non l’umanità in generale, a causare il riscaldamento globale e la politica non riesce a correggerne, se non tardivamente, solo i danni. È necessario restituire alle comunità la gestione dei beni comuni come aria, acqua e suolo.

Un altro libro della Frazer riprendeva nel titolo un’espressione di Gramsci, che appare molto calzante per la nostra situazione, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Questa politica costringe i cittadini impegnati a dire no a proposte scellerate, come quelle della Regione Umbria, a difendersi, dissipando energie preziose in battaglie di retroguardia, mentre le vere sfide sono altrove. Mentre diciamo no, potremmo dire sì nei confronti del potenziale di un turismo culturale, religioso e persino scientifico che potrebbe essere altissimo. Perché si collega alla filiera delle produzioni biologiche e alle startup tecnologiche più innovative. Non il turismo di massa mordi e fuggi, frutto di una sottocultura promossa dai “mercanti di panorama”, ma un turismo educato e formato che cerca il bello e il buono, ma anche il vero di una scienza che dialoga con la natura. Abbiamo città storiche uniche e originali che cerchiamo di far diventare delle copie trasformandole in brutti luna park con ruote panoramiche, alberi illuminati, video mapping che proiettano il nuovo insignificante sull’antico di facciate che, nella loro nudità, avrebbero molto da dire alla nostra anima. Se il sonno della ragione, come ci ha insegnato Goya, genera mostri, il sonno dell’intelligenza della Regione non produce futuro e ci lega ad uno sviluppo scorsoio che più va avanti e più ci soffoca.

 

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