amardord 47 IL SEGRETO DI PINOCCHIO, BURATTINO RIBELLE
di Sandro Valletta
l segreto è una smoderata passione per la vita, unita a una buona dose di curiosità. Caratteristiche di chi vuole scoprire il mondo e non ha pregiudizi per mancanza di esperienza. Per questo il burattino che sogna di diventare di carne e ossa, nato dalla lucida fantasia di Carlo Lorenzini (che scelse poi il cognome d’arte Collodi, in omaggio all’omonimo borgo di Pescia, in provincia di Pistoia, in cui visse durante l’infanzia) nel 1883, affascina i bambini di tutto il mondo da quasi 120 anni.
Tutto in Pinocchio è un inno all’innocenza e alla vivida intelligenza dell’infanzia, recintata dagli adulti in giardini dorati ma fatti di regole assurde e sciocchi premi per chi fa il bravo, e che spesso celano solo l’incapacità di comprendere e accompagnare. Almeno agli occhi dei più piccoli. Pinocchio è il risultato del grande rispetto che Collodi aveva per i bambini. Era consapevole del fatto che essi percepiscono benissimo di essere immersi in una realtà in cui esistono il bene e il male. La fame e la solitudine che Pinocchio prova quando Geppetto è in carcere sono sensazioni forti e vere. Pinocchio è smanioso di andare incontro alle esperienze, non vuole andare a scuola perché non sente di dover imparare la vita dall’abecedario. Vuole arrivare ai libri dopo che l’adulto lo ha guidato nella vita, una sorta di rivoluzione sulla strada della conoscenza. Anche se poi il suo resta un cammino solitario. Gli ostacoli e le sofferenze li affronta sempre facendo i conti con sé stesso. La favola di Collodi è una colossale lezione di pedagogia moderna. I bambini vogliono essere accompagnati nella vita, non si accontentano dei libri e delle regole. Il burattino prima di diventare uomo deve attraversare tutte le difficoltà, confrontarsi con le illusioni, i balocchi. Tutti vorremmo non dover crescere, passare il tempo a divertici, e tutti ci abbiamo provato in un modo o nell’altro. E il risveglio è stato sempre traumatico. Pinocchio dunque è metafora della condizione umana. Deve crescere, e ogni passaggio è segnato da delusioni, buoni propositi puntualmente non soddisfatti, cattiveria gratuita degli altri. Quando il burattino va a chiedere da mangiare al contadino, questi invece di dirgli semplicemente “no” gli tira addosso una catinella d’acqua. Poteva risparmiarselo. Ma il mondo è fatto anche di queste persone. Sbaglia quindi chi considera il libro solo una parabola dell’illusione e della menzogna, un monito a non dire mai le bugie, perché altrimenti cresce il naso e si viene puniti. Si tratta più che altro, del frutto dell’essenza moralista e bacchettona dell’Italia di fine Ottocento. Ma non era certo la morale di Collodi. Le bugie in Pinocchio sono il frutto di un sentire comune, anche i grandi le dicono. Fanno parte della vita. Come ne fa parte la magia, intesa come energia essenziale, che solo una sensibilità profonda può percepire. La fata turchina, infatti, che entra nella storia nei momenti cruciali in cui li burattino rischia la vita e lo salva, oltre a rappresentare l’elemento dei fantastico – siamo pur sempre in una favola per bambini – e a rivestire il ruolo di genitore ideale, catalizza tutte le forze misteriose e positive che agiscono nell’esistenza, anche quando si è disperati e non si crede più in sé stessi. La fatina non adotta mai un atteggiamento negative con Pinocchio, ma lo sprona sempre a fare meglio. E nonostante i suoi interventi, Pinocchio matura in piena libertà. La storia termina infatti quando lui capisce che per vivere deve lavorare e sostenere l’anziano padre. Ma uno degli aspetti più sottovalutati di questo racconto e l’incredibile forza ironica che sottende ogni singolo capitolo del libro. Collodi non ha un intento di moralismo pedagogico e il finale non è né amaro, né malinconico. L’ultima frase di Pinocchio è: – “Com’era buffo quando ero un burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene”. – La punteggiatura vuol fare intendere che il protagonista è molto lontano, dal divenire un perfetto scolaretto. L’autore si prende gioco del suo personaggio e lo fa spesso durante la storia. Quando Collodi la scrisse, aveva alle spalle 40 anni di letteratura umoristica, che allora trovava spazio solo nei periodici. E anche se il suo capolavoro narra le vicende di una maturazione, è l’elemento chiave. Basta pesare a quando il protagonista, truffato dal Gatto e la Volpe, si rivolge al giudice, questi gli risponde che lo manda in carcere perché è innocente. E quando c’è l’amnistia e tutti i criminali escono, l’unico a restare dentro è Pinocchio, che disperato grida alla guardia di essere un delinquente per conquistare la libertà. Altro esempio di fine comicità è l’episodio, descritto con brutalità, in cui Pinocchio uccide con un martello il Grillo Parlante. Il grillo meritava di essere ammazzato. È cosi pedante che non lascia altra scelta a Pinocchio. Come può dire a una marionetta “hai la testa di legno?” È una frase ovvia e inutile. Collodi dà vita a un continuo gioco dei valori, in cui vengono sempre scardinati i luoghi comuni e i ruoli. Non a caso Pinocchio viaggia attraverso i tre mondi: vegetale, animale e inanimato. E probabilmente determinante per il suo successo è la scrittura semplice e di enorme efficacia, da cui nasce l’italiano di oggi. Ed è un peccato che il testo non venga letto a scuola. Se ne è sempre sottovalutato il valore letterario. Questo è avvenuto probabilmente perché Collodi non è accostabile alle principali correnti letterarie dell’800. Egli combatteva il Romanticismo e il Verismo, perché considerava la realtà italiana, fatta di piccoli centri e poche metropoli, inadatta a queste espressioni culturali. Combatteva con tutta l’anima il realismo perché era convinto che la letteratura non dovesse essere un semplice calco della realtà. La sua era una visione che non prendeva scorciatoie…