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BIDEN E TRUMP, VUOTI A PERDERE

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BIDEN E TRUMP, VUOTI A PERDERE

                                                                               di Mario Travaglini

 

L’America è condannata ad un nuovo duello Biden-Trump? Pare proprio di si.  Ad un anno dalle presidenziali, la strada verso le elezioni, inedita per le sue numerose incongruità, è dominata dalla rivalità tra i due più vecchi candidati della storia americana  che sembra destinata a trovare nuova linfa  nel 2024 quando, a parti invertite, si giocherà la rivincita del 2020. Ronald Reagan, rieletto all’età di 73 anni, farebbe quasi la figura di un giovanotto, ma chiunque sarà il vincitore è certo, sin da ora, che entrerà  nella storia come il più vecchio Presidente di un paese che per il 45% è costituito da giovani sotto i 35 anni. E questa è  solo la prima incongruenza. La seconda è un corollario della precedente, in quanto i due candidati mostrano di avere un tasso di impopolarità assolutamente fuori dal comune, tanto che ben il 54% degli americani mostra di avere un giudizio negativo sia di Trump che di Biden. Il candidato repubblicano, sebbene abbia  sulle spalle diversi procedimenti con ben 91 capi di imputazione e due cause per impeachment, intende farsi rieleggere alla testa di un governo che ha tentato di abbattere con un colpo di stato (Capitol Hill). Le probabilità che Trump sia condannato e debba scontare una pena detentiva sono alte, tanto più se si tiene conto che in diversi Stati sono state avviate azioni giudiziarie per impedire che il suo nome compaia sulla scheda elettorale in forza del XVI emendamento che alla sezione 3 recita: “… le persone implicate  in una insurrezione o in una ribellione  non possono concorrere per un mandato elettorale”. Se mai,quindi, dovesse essere eletto sarà la Corte Suprema a destituirlo. Ancora più sorprendente è, poi, il fatto che nella metà campo repubblicana la campagna per le primarie è stata già giocata senza che i candidati siano mai scesi  in campo. Per esempio, nello stato dello Iowa, Trump a due mesi dal primo scrutinio appare già come il grande vincitore, totalizzando ben il 60% delle intenzioni di voto contro appena il 12% di Ron De Santis, il suo più prossimo competitor. Forte di questa situazione egli ne approfitta per fare una campagna eterodossa sottraendosi ai dibattiti ed evitando di subire gli attacchi dei suoi rivali. La sua comunicazione resta basata unicamente sulle dispute giudiziarie che presenta come una montatura del partito democratico per far fallire la sua rielezione. Sul fronte economico zero assoluto. Nessuna proposta, nessuna iniziativa, nessuna presa di posizione su qualsivoglia tema economico e finanziario che pure in questo periodo abbondano sia in terra americana che nel mondo intero. Tutto questo appare davvero singolare in un paese che è considerato urbi et orbi la prima potenza economica mondiale. Per il momento dunque sul tavolo non c’è alcun progetto, se non quello di opporsi ad ogni variazione di bilancio con il rischio di far sospendere i servizi federali o gli aiuti militari in Ucraina e Israele. Ritengo che tale atteggiamento possa ragionevolmente considerarsi come l’indizio della politica economica che Trump, qualora eletto, andrà a sviluppare nel prossimo quadriennio, ovvero smettere di aumentare il debito(oggi arrivato alla cifra stellare 34.000 miliardi di dollari), cessare o diminuire progressivamente gli aiuti militari, incentivare il ritorno in patria delle imprese che nel passato avevano delocalizzato.

Egli tralascia tutto il resto perché, forse, troppo preso dalle sue questioni personali la cui agenda, già dal prossimo 16 gennaio, prevede la conclusione del processo per stupro intentato dalla giornalista Jean Carrol alla quale ha dovuto versare un provvisionale di 5 milioni di dollari. Ma, la domanda finale che mi pongo è la seguente : come reagirà l’America conservatrice qualora Trump dovesse finire la campagna elettorale  vestito da detenuto e con le manette ai polsi, dopo che per lungo tempo ha esortato i suoi fedelissimi a prendere ancora le armi per difendere una Repubblica che barcolla sul ciglio del burrone grazie anche alle sue smargiassate.

Sul fronte democratico le cose non vanno molto meglio, a cominciare da uno stato di salute di Biden che i più benevoli giudicano neppure passabile. Niente di comparabile con l’esuberanza dei suoi due predecessori che guadagnarono facilmente il secondo mandato (Clinton e Obama). I segnali di una allarmante senilità, evidenziati con sempre maggiore frequenza anche dai repubblicani,  si moltiplicano e sempre più diventano motivo di derisione e di satira televisiva. Gli inciampi e le cadute sulla scaletta dell’Air Force One  sono poca cosa rispetto agli sfondoni che hanno costellato diverse sue conferenze. Chi non ricorda la gaffe su Putin, quando gli disse “… che aveva fatto un grosso errore nell’invadere l’Irak”, o quando, il 10 settembre scorso in visita ad Hanoi, disse   “ …..bene, non so voi ma io adesso vado a mettermi a letto”, o quando, infine, davanti ad una telecamera, leggendo la dichiarazione riportata sul gobbo, non si accorse che l’ultima riga conteneva un invito a ripetere l’ultima frase e lui imperterrito lesse anche quello e pronunciò solennemente “ripetere due volte!” . In altri termini, non essendo in condizione di reggere altri cinque anni verrà verosimilmente rimpiazzato dalla sua compagna di cordata Kamala Harris, che in modo surrettizio si ritroverà a guidare il paese più potente del mondo senza passare per il legittimante voto popolare. C’è poi il peso non di poco conto delle crisi internazionali in atto che con le due guerre (Ucraina e Israele) esplose durante il suo mandato  avranno effetti politici ed economici sia interni che  internazionali. Nel Michigan, per esempio, il sostegno dato ad Israele nella controffensiva contro Hamas gli potrebbe costare assai facendogli perdere molti dei voti dei 310 mila arabi americani che vivono in quello stato, come accadde già nel 2016 ad Hilary Clinton. Altre comunità, soprattutto quella di colore, abitualmente in orbita democratica, mostrano segnali crescenti di distacco e di delusione per le mancate riforme sull’accesso semplificato al voto, sulla polizia  e la giustizia penale, sui prestiti agli studenti, sul fallimento dei grandi progetti macroeconomici che avrebbero dovuto rivitalizzare le regioni colpite dalle calamità naturali.  Insomma, giusto per restare nel cuore dell’obiettivo democratico, Biden ha perso in poco tempo l’11% dei consensi ed è sprofondato al 37% delle intenzioni di voto, scendendo al di sotto della soglia simbolica del 40% sotto la quale nessun Presidente è riuscito mai a farsi eleggere. Dal punto di vista strettamente economico, Joe Biden, continua a ripetere che la sua Bideneconomics sta avendo risultati importanti sul Paese e che sta andando a gonfie vele sia sul lato dell’occupazione, sia su quello della produzione che su quello della difesa dall’inflazione. Per certi versi il presidente ha ragione ma, purtroppo per lui, questi successi sembrano ascrivibili alle performances delle industrie belliche ed a quelle tecnologiche per le ragioni che noi tutti conosciamo bene. A mio avviso  l’ultimo modello economico di successo fu quello adottato da Bill Clinton, improntato alla stabilizzazione macroeconomica,  alla liberalizzazione del commercio globale, alla riforma del welfare ed alla liberalizzazione economica. Praticamente l’opposto di quello che sta facendo Biden: consolidamento macroeconomico contro spesa in deficit; delocalizzazione contro rilocalizzazione; deregolamentazione contro             iper regolamentazione. Il lato peggiore del modello Biden sembra essere quello  di una eccessiva spesa fatta in deficit, che se non messa immediatamente sotto controllo, finirà, alla fine del decennio, per far oltrepassare al debito pubblico la soglia dei 50.000 miliardi.  Proprio per l’eccesso di debito l’America di Biden ha dovuto subire il primo downgrade della storia con il  declassamento del rating da AAA a AA+  decretata da Standard and Poor’s (S&P)  lo scorso 5 agosto 2022, i cui effetti negativi si andranno ad  aggiungere a quelli, già severi, prodotti dall’aumento dei tassi d’interesse imposti dalla Federal Reserve  per contenere l’inflazione. Biden si avvia dunque alle prossime elezioni del 2024 con tre giganteschi macigni sulle spalle che ognuno può mettere come vuole in ordine di importanza: età, guerre e debito pubblico.

Comunque la si giri, l’America non riesce proprio ad esprimere candidati all’altezza del suo prestigio e del potere mondiale che bene o male ancora detiene. 

(Foto e “vuoto” di P. L. Palmieri)

 

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