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Caprera, l’isola che c’è

Il Limite / 127

Caprera, l’isola che c’è

di Raniero Regni

Limite 127

L’utopia, ovvero il luogo perfetto e desiderabile, la società perfetta, è stata spesso ambientata in un’isola. Trattandosi del frutto dell’immaginazione di filosofi e scrittori è ovvio che quell’isola non si trova su nessuna carta geografica. Utopia, letteralmente il non luogo, è l’isola che non c’è. Eppure c’è un’isola che si trova sulle mappe e che può rappresentare una specie di utopia incarnata. Un’isola fatta di vento, sole, mare, barche, vele, donne e uomini che vivono assieme uniti da una passione e da un sogno, una comunità temporanea che può creare amicizie durature. Quest’isola è Caprera, nell’arcipelago de La Maddalena, a nord della Sardegna, prossima alla Corsica. I turisti forse la conoscono e l’hanno visitata andando a cercare la casa di Garibaldi e la sua tomba. Ma c’è una Caprera più segreta, un’oasi naturale integrale dove nessuno può campeggiare, dove non si incontrano turisti. Dove d’inverno rimangono solo le capre selvatiche da cui ha preso il nome. Nascoste alla vista tra boschetti di macchia mediterranea ci sono le basi del Centro Velico Caprera, una delle scuole di vela più importanti d’Italia e forse d’Europa, che dal 1967 accoglie allievi e istruttori.

Chi ha vissuto l’esperienza di un corso di vela, sia essa deriva oppure cabinato, sa di che cosa parlo. Chi non lo ha vissuto difficilmente potrà coglierne il significato.  Comunque ci provo a spiegarlo, come reduce recente da uno di questi corsi settimanali.

Alla mia età mi sono ritrovato gettato in un’avventura fisica, psicologica, educativa, un’esperienza umana di un’intensità unica, che avrei dovuto fare da giovane, che i giovani dovrebbero fare. Intanto una vita in comune, dormendo su letti a castello con sei persone sconosciute in un tucul con il tetto di cannette, bagni alla turca, docce all’aperto, pranzo in barca in navigazione oppure in splendide calette quasi sempre deserte, cena condivisa con tutti gli altri compagni dei corsi, una corvè di pulizie e aiuto in cucina una volta a settimana e… tocca a tutti. Sveglia al mattino alle sei e trenta, colazione, lezione e poi, armate le barche, via in mare, quattro barche super veloci, quattro allievi per barca più un istruttore. Circumnavigare a grande velocità l’arcipelago, intravedendo a nord ovest la sagoma della Corsica, infilarsi tra gli scogli e gli isolotti, incocciando traghetti e altre imbarcazioni. Un turbinio di ordini secchi e manovre, alzando o ammainando vele diverse. Ruotando nei ruoli, randa e carrello, scotte del fiocco, timone, gennaker, tac e altre regolazioni. E poi vento, vento, mare, scafo sbandato, prua puntata su gli scogli dei Monaci, in un paesaggio selvaggio, aspro, magnifico. Granito e mare corazzato d’acciaio. E poi manovre di ancoraggio e di ormeggio senza motore, discesa a terra, bagni in un’acqua trasparente e dalle mille sfumature. Oppure attaccati a gigantesche boe galleggianti, tuffandosi da una barca e raggiungendo l’altra a nuoto. Uomini e donne che ridono, scherzano, si concentrano, sfidano il mare, mettono a segno le vele per far filare più veloce la barca. E, attenzione, raffica in arrivo.

Un‘esperienza intensa e irripetibile, ma che si può replicare ogni anno. Un modo per conoscersi, anche se si è più che adulti. Alla fine, una magnifica forma di vittoria su se stessi. Senza nessuna competizione ma con molta umanità. Ricevere lezioni da ragazze e ragazzi, che hanno l’età delle tue figlie, che di fronte alle tue goffe incertezze accompagnate da scuse, replicano: “ma che dici! Siamo un equipaggio!”. Velisti che diventano pian piano, ma anche in fretta in fretta, marinai, come recita l’intento del corso Cabinato 3.

Ogni sera tornare alla base di Porto Palma, scendere stanco, con i muscoli doloranti per lo sforzo continuo, ma con negli occhi tanta bellezza e nella mente tante idee da decantare e nel cuore tante impressioni da decifrare. Avviarsi leggermente sbandati, quasi barcollando per l’effetto del “mal di terra”. Ritrovarsi a cena a parlare con gli amici, a scambiarsi impressioni e poi scivolare nel sonno tra il profumo del mirto e voci che si spengono piano piano nella notte buia e piena di stelle. Nessun televisore, nessuno schermo, nessuna luce superflua, nessuna musica. Finita la settimana di corso, che è sembrata più lunga e più breve dei giorni che la compongono, riportare a casa tutto questo non è semplice. Già sul traghetto di ritorno, vedere dall’alto il porto di Palau che hai attraversato più volte, magari al timone, a filo d’acqua cercando la rotta giusta per evitare scogli, trovare le imboccature stando attendo agli incroci pericolosi, correndo all’impazzata con secche virate sulla scia della barca che ti precede, ti sembra di conoscerlo bene quel golfo perché quei luoghi li hai visti da un osservatorio privilegiato: la silenziosa velocità di una barca spinta dal vento. Per di più senza bruciare nemmeno un grammo di combustibile. A riprova di quello che già sapevo: dimmi che mezzo usi e ti dirò che paesaggio vedrai. Poi sull’aereo già cominci a ripassare la moviola dei ricordi. E pensi che quella esperienza così intensa ha a che fare con quella tanto teorizzata educazione ambientale, un po’ ruvida ma realmente rispettosa della natura, di cui ho parlato spesso in questa rubrica.

Un giornalista e saggista, famoso negli ’70 e ’80 del secolo scorso, Luca Goldoni, scomparso di recente, così scriveva in una sua Ballata per Caprera. “Io ho scoperto la vela a Caprera, dove si va sempre a vela, anche quando si scende, si mangia, si chiacchiera e si dorme, perché uno crede che Caprera sia un’isola e invece no: è un grande bastimento ancorato al largo della Sardegna e su questo veliero non ci sono cinema, giornali, telefoni, alberghi e neppure passeggeri ci sono, ci sono soltanto uomini di mare che parlano di mare e di cielo perché dal cielo si indovina l’umore del mare e viceversa e dal primo vento che ti asciuga la faccia rasata all’aperto capisci se dovrai issare il fiocco o la tormentina”.

In greco antico il vento si dice ànemos, dalla stessa parola deriva l’italiano “anima”. Ha ragione Goldoni, per chi ama la vela e il mare, Caprera è “il mare nell’anima”.

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