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La tassa climatica? C’è ma non si vede

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La tassa climatica? C’è ma non si vede

di Mario Travaglini

 La gabella sul clima c’è ma non si può dire, altrimenti si corre il rischio di essere bollati come terrorista ambientale. Ma, dato che non lo sono, mi permetto di fare qualche considerazione sull’argomento partendo dal fatto che la nostra Europa in modo del tutto surrettizio ne sollecita da tempo l’introduzione. Infatti, fin dalla sua istituzione, l’Unione Europea  ha messo in atto tutti i tipi di misure volte a combattere il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente.

Questa tendenza ha subito un’accelerazione negli ultimi anni ed è sempre più chiaro che spesso si riduce all’innalzamento di ulteriori barriere commerciali per impedire l’ingresso nell’UE della concorrenza straniera. Dal 2005,il sistema cap-and-trade dell’UE consiste nell’imporre una tassa sulle emissioni  nell’ambito del sistema di scambio di quote di emissione (ETS), consentendo alle società di scambiare i propri diritti di emissione di CO2. L’idea è che consentendo alle aziende di acquistare e vendere questo diritto, le emissioni vengano ridotte dove è più efficiente farlo. Una piccola obiezione mossa da alcuni economisti  segnala che per raggiungere i rigorosi obiettivi di riduzione di CO2 fissati nell’accordo internazionale di Parigi  richiederebbe un costo finanziario di 1.000-2 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2030, a fronte di una riduzione  della temperatura di appena 0,027°C.

Gli stessi economisti ritengono altresì che  un uso migliore delle risorse finanziarie sarebbe quello di aiutare le vittime di disastri naturali e che l’UE e i suoi Stati membri otterrebbero un migliore ritorno sugli investimenti non limitando più l’energia nucleare, una fonte di energia particolarmente affidabile, che manca nelle fonti energetiche rinnovabili come l’energia eolica e solare. In senso opposto invece stanno andando i governi europei ampliando la gamma di industrie a cui verranno addebitate le emissioni di CO2. Il mese scorso, il Parlamento europeo ha votato per estendere il sistema cap-and-trade ai settori dell’edilizia e dei trasporti, che in precedenza erano esentati. È importante notare che questa misura si applicherà alla benzina, al gasolio e ai combustibili per riscaldamento come il gas naturale, il che significa che avrà un impatto diretto sui conti delle famiglie.

Fedele alla forma, la nuova politica include anche misure per compensare i consumatori per questo costo creato dalla stessa UE. Verrà creato un “Fondo sociale per il clima” di 87 miliardi di euro, che questi stessi consumatori europei dovranno finanziare come contribuenti. Resta da vedere se l’inflazione, il costante aumento dei prezzi dell’energia, la spinta verso una mobilità elettrica e le ristrutturazioni imposte per il risparmio energetico degli immobili faranno reagire gli elettori che il prossimo anno saranno chiamati a rinnovare il Parlamento europeo.

Per compensare l’estensione de facto della tassa climatica, l’UE sta anche imponendo il protezionismo.  Infatti con la sua nuova tassa sulle importazioni – chiamata “Carbon Border Adjustment Mechanism” (MACF) – che entrerà in vigore nel 2026, l’UE mira a compensare l’industria europea per la competitività che ha perso a causa della tassa sul clima. Nonostante le proteste dei partner commerciali,secondo cui la misura viola le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), l’UE sta semplicemente continuando ad attuarla.

Queste politiche derivano dallo stesso analfabetismo economico che è alla radice delle politiche energetiche sperimentali dell’Europa. Queste politiche comportano la graduale eliminazione della produzione domestica di combustibili fossili senza che venga messo in atto un sostituto affidabile e redditizio. Gli effetti prodotti possono essere catalogati  tra quelli più pericolosi in quanto accelereranno il processo già in corso della  “deindustrializzazione” in Europa, danneggiando importatori e consumatori finali.

E queste politiche non sono le uniche a fare danni. In effetti, ci sono molti esempi di politiche climatiche dell’UE utilizzate a fini protezionistici. L’EU Net Zero Industry Act, recentemente proposto, mira, per esempio,  a garantire una quota locale del 40% per le principali tecnologie verdi entro il 2030. Questa politica è in parte una risposta al Cut Inflation Act dell’amministrazione Biden  che, con poche eccezioni, riserva il sostegno fiscale per gli investimenti “verdi” a minatori e produttori nordamericani – ma non è meno irragionevole .

Un altro fatto, passato del tutto inosservato, e che va nel segno di quanto detto sino ad ora, è il voto del Parlamento europeo per contrastare la deforestazione. Le nuove regole partorite, imponendo alle aziende di garantire che i prodotti venduti nell’UE non abbiano portato alla deforestazione, non hanno fatto altro che appesantire la burocrazia, tanto che alcuni paesi asiatici produttori di olio di palma hanno minacciato di far nascere un caso internazionale e compromettere le relazioni commerciali.

 Tutto questo ,insomma, assomigliando molto al protezionismo, pone  l’Europa nella direzione sbagliata, perché dietro le politiche ambientali inefficaci della Commissione si nasconde un coacervo di interessi che  non possono proprio essere mostrati alla luce del sole.

Le elezioni del Parlamento europeo del 2024 arrivando in un momento cruciale per cambiare il corso di molte decisioni spiegano le molte fibrillazioni in atto, in particolare dalle parti dell’Eliseo e dei sostenitori della Baronessa Ursula Gertrud von der Leyen,

 

 

 

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