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REGOLE O LICENZE?

Il Dubbio / 109

 

  REGOLE O LICENZE?

di Enea Di Ianni

 Ogni volta, sfogliando la, rivista “L’Alpino”, edita dall’ANA (Associazione Nazionale Alpini). riaffiorano ricordi legati a tanti giovani compaesani che, chiamati al servizio di leva , dopo il periodo trascorso nei C.A.R. (Centri Addestramento Reclute) tornavano per la prima volta, in licenza, al paese e, per un paio di giorni, si aggiravano orgogliosamente in divisa, non tralasciando mai di far visita al parentado che, per l’occasione, si complimentava tangibilmente con essi omaggiandoli a voce e, per quanto si potesse, in moneta. Non tanta, perché non ce n’era, ma, come erano solite ripetere le anziane di casa, quelle  che, avendo l’onore e l’onere di infilare, delicatamente, la mano nel taschino della giacca del giovane, nel farlo vi depositavano il “pensierino” ripetendo a se stesse ed ai presenti, a mo’ di giaculatoria:  “Poco sì, niente no!”

Nel vederli, quei soldati, ciò che colpiva subito e di più era il cambiamento avvenuto in essi in poco tempo. A parte il taglio dei capelli, avevano moderato l’eccesso di baldanza giovanile e acquistato un’espressione che li rendeva, a vista, più maturi e ingentiliti. Nessuno pensava che avessero cambiato identità, ma la divisa militare che indossavano, il modo di incedere e parlare e, soprattutto, quel cappello con la penna nera li rendeva più uomini, più maschi, più fieri e anche più ambiti dalle ragazze del posto. Il timbro della voce, addolcito, era meno rude, più sicuro e con venature di gentilezza nuove. Alle domande della gente rispondevano garbatamente e l’ inflessione che traspariva dai loro  discorsi e racconti di “naia” sapeva di Tolmezzo, Bassano, Vicenza, Udine…

Con loro entrarono in tante case nostrane le prime arie dei canti propri di quel corpo militare; dalle case alle “cantine” e, poi, alla scuola il passo fu breve. La prima volta che il maestro ci canticchiò “Ta-pum” il silenzio non solo si generò all’istante, ma fu tale che quando cessò il canto continuammo, tutti, a mantenerci  fermi, ammutoliti.

Quel pomeriggio non giocammo ai soliti giochi. Seduti in cerchio nell’abituale slargo, che chiamavamo piazzetta, continuammo a raccontarci di quel giovane che aveva lasciato la “mamma sua” per andare a fare il “soldà” e, poi, a combattere in trincea.

Tentammo di chiarirci chi mai fosse il “Cecchino”, quello che, una volta in trincea, cominciava a “sparà”.Decidemmo di chiederlo, il giorno dopo, al maestro. Quando ci spiegò che “Cecchino” non era uno degli alpini, ma soldato austriaco, del re “Cecco Peppe” e perciò detto “cecchino”, ci sentimmo tutti più sollevati e il canto, in quattro e quattr’otto, divenne nostro.

Da allora, prendendo in prestito il  suono “Ta-pum”, scherzosamente iniziammo a puntarci contro una fantomatica pistola fatta dal pollice ritto di una mano e dall’indice, della stessa mano, rivolto verso il bersaglio. Il resto lo faceva, orgogliosamente e con impegno, la bocca: un deciso e risonante “Ta-pum”!

Ogni tanto ancora oggi capita, rincontrando uno di quegli amici, di armare la mano e provare, mimando altri tempi, a fingere di colpirlo.

Il nostro “Ta-pum”, però, vi giuro che non ferisce e non uccide, libera solo e ancora, come una volta, una sorta di giocosità che apprendemmo dai giovani alpini compaesani, quegli alpini che, anche da “veci”, non hanno mai più dismesso l’amore per la “penna nera” e neppure lo smalto di cui sanno colorare, ancora oggi, le loro pacifiche adunate. ”Belli gli alpini in marcia con le fanfare: ma nessuno per strada o sui balconi ad applaudirne l’impegno… accade sempre più spesso ed è un peccato.” E’ l’amaro sfogo di Sergio Boem, alpino del Gruppo di Padenghe, Sezione di Brescia.  E’ cambiata la gente? Son cambiati gli alpini? O che altro?

Non ne sono certo, ma non può essere che stiamo, un po’ tutti, rinunciando con troppa facilità al nostro “passato prossimo” e siamo talmente presi dal “futuro” da bruciare, senza viverlo, il “presente”? Concentrati sul “futuro”  è chiaro che il “presente” perda di senso, evapori e, se per caso, siamo tentati di recuperare qualche briciola di esso, diventa difficile, non è più possibile farlo perché, nel frattempo, quel “presente non vissuto” si è fatto già “passato prossimo”.

Il presente si vive camminando a piedi scalzi sulla terra ferma, calpestando la resistenza umida e appiccicosa o arsa e screpolata  del suolo,  assaporando le folate di vento che trasportano odori e provando a difendersi dall’ingoiare il tanfo che pure c’è e s’avverte. Il presente s’ avverte urtando e rimuovendo ostacoli, indugiando, qua e là, quel tanto che serve senza mai omettere di provare a correre col sorriso negli occhi anche se il freddo e il buio, spesso, lo mutano in pianto. E’ vivendo il presente che appuri della docente ferita alla testa e al braccio dal coltello del suo alunno sedicenne e ti accorgi, all’improvviso, quanto Abbiategrasso possa essere vicina ad ognuno di noi.

E’ vivendo il presente che provi indignazione per l’ eccessiva facilità con la quale taluni ragazzi e adolescenti riescano, oggi, a poter disporre di armi e di come noi adulti pensiamo di poterci accontentare contenendo il tutto in una definizione: “bullismo”. Anche dei termini “disagio” e “problematicità” stiamo abusando troppo e in tanti. Se veramente vivessimo il presente ci saremmo dovuti accorgere di quante volte – troppe! – le nostre “buone intenzioni” si sono accumulate una sull’altra senza mai essere seguite davvero dai “fatti” che promettevano.

Il Ministro dell’istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, ha definito “inquietante” quanto accaduto nella scuola di Abbiategrasso e ha voluto “cogliere l’occasione perché si rifletta attentamente sull’introduzione dello psicologo a scuola soprattutto in un momento particolarmente difficile

Ben venga lo psicologo a scuola, Ministro, non sarebbe male neppure se ci fosse il medico, un infermiere, l’assistente sociale, magari il confessore senza dimenticare che, intanto, occorrono pure gli insegnanti!

Il problema non è la scuola in sé, neppure la famiglia in sé, o la società; il problema è il loro rapportarsi, il loro intendersi. E’ la volontà, la capacità e la determinazione di ciascuno nel voler essere e saper essere sul serio partner e complice delle altre., complice vero  nel sostenere il percorso educativo delle nuove generazioni assolvendo ciascuno alla specificità e diversità dei ruoli cominciando a recuperare carattere smettendola, una volta per tutte, di essere soltanto “coppieri succubi”[1]

Tanti luoghi di “addestramento umano” capaci di darsi, sì, degli obiettivi condivisi, ma differenziandosi nei ruoli e nei metodi.

I giovani della mia infanzia partivano per il servizio militare diversi per nascita, condizione, luogo, educazione, status sociale. Il CAR doveva formarli militarmente, è vero, ma non si limitava a preparare un soldato che non fosse anche un uomo e così c’erano abitudini, comportamenti e abilità da curare in tutti e specificità da far emergere in ciascuno. C’erano regole, diritti e doveri; c’era anche la libera uscita, ovvero il momento da gestire in proprio. Nella libera uscita non veniva chiesto di marciare, né di esercitarsi in alcunché se non nell’essere sociale, aprirsi al territorio, crearsi amicizie, socializzare mantenendo sempre un atteggiamento corretto, cordiale e decoroso.

[1] «Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia» (Platone, Repubblica)
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