Il grande Parco delle Arti di Molineddu continua a stupirci con la qualità delle sue iniziative. La mostra che si inaugurerà stamane è curata e presentata in catalogo dal critico d’arte Mariolina Cosseddu di cui , con piacere, ospitiamo il testo critico. (RP)
PUNTO DI FUSIONE
Nella termodinamica il punto di fusione indica la temperatura necessaria affinché un solido si renda liquido o comunque perda la sua consistenza per diventare duttile e pronto alla trasformazione. Prima di tornare allo stadio iniziale.
In un sistema simbolico rimanda invece alla condivisione tra individui diversi ma strettamente legati e comunicanti: in entrambi i linguaggi, dunque, la formula rende chiare le circostanze di appartenenza e di scambio tra esseri affini, in un ciclico ritorno del tutto.
Questa mostra nasce per mettere in luce sia una condizione materica che una simbolica: Efisio Niolu e Grazia Sini giocano sulle parole, sulle metafore, sulla loro diversa ma strettamente connessa ricerca artistica. Su due itinerari solo apparentemente divergenti che, ad un certo momento, hanno intercettato un equilibrato punto di fusione.
Efisio Niolu si muove fin dagli esordi nell’ambito di un’astrazione materica declinata, nel tempo, su varianti compositive di essenziale e misurata sintassi: dai monocromi appena attraversati da ferite quasi invisibili sulla superficie dipinta, agli equilibrati geometrismi di colore degli anni novanta fino alla inclusione del caso nella griglia luminosa e minimalista di derivazione orientale. Oggi la sua ricerca appare più complessa ed elaborata concettualmente pur salvaguardando le lontane origini e le consolidate modalità operative. Aspetti decisivi rimangono la scelta dei materiali, il loro trattamento, il sistema combinatorio. Partiamo dai primi: già anni addietro aveva scoperto la carta come supporto perfetto che, nella sua povertà, poteva offrire soluzioni inaspettate. La carta intelata dipinta a olio diventa ben presto terreno fecondo per sperimentazioni meticolosamente controllate: ne seguono decollages, tecniche miste, strappi e fratture che animano le superfici scalzate dalla loro inerme condizione, costrette a rispondere alle sollecitazioni del segno-colore e trasformate in geografie ideali.
Intanto la manualità operativa rimane fulcro centrale del suo lavoro: quella che dice l’amorevole cura nel contatto con la materia, quella carta da pacchi umile e granulosa di cui va scoprendo negli anni le possibilità di resa e di resistenza, concepita sempre come preziosa per le sorprese che comunque riserva o per le conferme mai deludenti.
La condizione iniziale è dunque una struttura vergine pronta ad accogliere sempre nuovi passaggi, mutate combinazioni, slittamenti di piani dove le forme e il colore non smettono di essere protagonisti in un bilanciato scambio di funzioni. Ma a governare queste calibrate sequenze operative è sempre lo spazio, inteso come campo di intervento aperto e metamorfico, duttile e dinamico nonostante il dominio delle griglie apparentemente composte e razionali che lo attraversano e lo impegnano in una dialettica stringente. Sia nelle tele di piccolo formato in cui appare centrale la forma geometrica quadrangolare sia nelle grandi dimensioni di opere di ultima ideazione, in ogni caso lavori concepiti e progettati come serie, moltiplicabili da un’inesauribile creatività.
Le grandi tele in mostra, attraversate da sottili bande bianche su cui si fissano macchie di colore libero e mobile, sono il risultato di fasi di lavoro paziente e meticoloso. Le carte di cui sono fatte vengono dipinte, ritagliate, selezionate, adagiate sul supporto di tela in una relazione continua e differente tra loro e con lo spazio che le accoglie. Questo, severamente monocromo, sembra fare da cornice agli interventi pittorici di chiara gestualità che investono le strisce orizzontali pensate come note diseguali su un singolare spartito: una visione dove tutto è proporzione ed equilibrio, corrispondenza e consonanza, ritmo e armonia. Il tessuto così sapientemente costruito, simile a un arazzo contemporaneo, freme dunque di vita propria nei passaggi di tocchi, grumi, filamenti che rendono vibranti quei nastri di cromatica musicalità.
Una foresta di segni, una mappa guardata dall’alto, un labirinto di forme leggere che corrono in mille direzioni, si offrono così allo sguardo incapace di fermarsi nel gioco tra il detto e il non-detto, tra la concitata animazione segnica e il silenzio degli sfondi.
Che di fatto, sfondi non sono, semmai orizzonti illimitati dove si inserisce lo scenario frammentato di mille tessere su tele mai incorniciate perchè progettate dall’artista come solidi conclusi in se stessi, come oggetti tridimensionali insofferenti di strutture ulteriori, pronti a interagire con l’ambiente, a espandersi nello spazio del reale.
Se per Efisio Niolu la pittura si attua nella concretezza delle serie che ripetono una grammatica di base variata fino alle ultime resistenze formali, è perché, nella adozione di quel linguaggio neoconcretista, vede una sfida al superamento dei limiti di volta in volta imposti da quel dettato pittorico. Sfida con se stesso, caparbiamente fedele ad una scelta consapevole e intimamente connaturata al suo mondo interiore, e sfida con quello stesso registro di cui sonda, come in un mantra spirituale, le infinite capacità di risposta. Ne deriva una scrittura dell’invisibile, una partitura dell’anima mai acquietata, una strategia o un’illusione per provare a dare ordine al disordine del mondo.
Per Grazia Sini la forma scultorea è “un luogo, una entità, una sintesi di movimenti…una forma mai staccata dall’universo, dagli elementi che la circondano, perciò è qualcosa di più di un’immagine”: nelle parole della grande scultrice francese Germaine Richier si può ritrovare il senso della visione che accompagna da anni la ricerca di un’artista sarda capace di interpretare in maniera personalissima la grande tradizione del moderno.
Leggeri, mobili, trasparenti, gli oggetti scultorei di Grazia Sini seducono da subito lo sguardo, invitano a ruotare attorno alla loro presenza, sollecitano dubbi e propongono interrogativi. Sono forme liricamente ambigue, mai pienamente definite, orientate in più direzioni, maneggevoli eppure delicatissimi, catturano lo spazio circostante, si fanno attraversare dai riflessi dell’ambiente, si flettono sinuosi tra pieni e vuoti, tra luci intense e ombre accennate.
Risultato sorprendente di un lungo, e dichiaratamente evidente, processo di metamorfosi della materia, le strutture scultoree di Grazia Sini rappresentano la conquista di una forma modellata da mani abili quanto emozionate, veloci e pazienti nell’assecondare la natura del materiale piegato alle proprie esigenze formali.
Il policarbonato prima, il metacrilato subito dopo, in principio solidi e rigidamente composti, perdono pian piano le proprie caratteristiche sollecitati dal calore della fiamma viva che ne allenta la resistenza mentre cedono alle richieste dell’artista pronta a modellare le lastre in manufatti morbidi e flessuosi. Intercettare il momento giusto, la temperatura adeguata, il punto di fusione, dunque, consente il passaggio dall’inerzia originaria ad un organismo compiuto nella sua elegante plasticità: un’operazione dei sensi allertati che implicano la tattilità ( le mani avvertono il calore ), lo sguardo ( sorvegliare il divenire della materia), l’emozionalità controllata dalla ragione che assiste al mutamento e alla nascita della figura in tensione.