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QUANDO CON I LANZICHENECCHI TROVAI LA STRADA PER UN MESTIERE ARDUO COME LO SBARCO SULLA LUNA

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QUANDO CON I LANZICHENECCHI TROVAI LA STRADA

PER UN MESTIERE ARDUO COME LO SBARCO SULLA LUNA

di Marcello Martelli

Sono purtroppo frequenti i casi di violenza che fanno inorridire e riflettere. Ripenso al rapporto con i miei genitori in famiglia, i veri maestri a scuola e nella professione, che erano non giudici di noi giovani rampanti, ma educatori e giardinieri delle nostre migliori qualità.

Dopo aver rifiutato la professione di mio padre avvocato, l’argomento per scrivere il mio primo articolo di aspirante “gazzettiere” lo trovai proprio nel suo studio legale di Tossicia. Dove un giorno vidi apparire tre uomini con la faccia strana e i pantaloni alla zuava. L’avvocato mi spiegò che quel trio un po’ inquietante di clienti era arrivato da un paesino vicino, spesso teatro di risse e liti, a volte anche sanguinarie.

 Secondo una vecchia leggenda, in tempi lontani, nel borgo di poche case aveva trovato rifugio una compagnia di mercenari discendenti dai lanzichenecchi. Che confermavano le origini con l’abbigliamento e soprattutto con il loro carattere piuttosto aggressivo, che spesso li portava in tribunale. Mi avventurai a raccontare la storia degli oriundi lanzichenecchi e, per buona sorte, il mio primo articoletto piacque a un giornale importante che, con grande sorpresa, pubblicò il testo con la mia firma sotto.

Avevo inconsapevolmente rotto il ghiaccio e, molto incoraggiato, perseverai a lungo nella mia piacevole esperienza di gazzettiere da un provincia che allora, per noi giovani, era chiusa come una prigione. Dove tuttavia, non ancora maggiorenne, conquistai la nomina di corrispondente del “Giornale d’Italia” dalla città capoluogo, dove mi ero trasferito con la famiglia. Traguardo importante per me e anche una inattesa soddisfazione per mio padre che di quel quotidiano di orientamento liberale, con firme di primo livello, era fedele e assiduo lettore.

 Ma il compiacimento durò poco più di un anno e fu una delusione quando annunciai all’avvocato che stavo per cambiare giornale. Erano i tempi della tragedia di Marcinelle, con trecento minatori morti e, fra loro, molti abruzzesi, sepolti a oltre mille metri di profondità nella miniera di carbone in fiamme. “Il Giornale d’Italia” pubblicò in prima pagina anche la mia corrispondenza dall’Abruzzo, vicino all’autorevole articolo di fondo firmato da Luigi Sturzo.

Mio padre fece notare al “perfetto sconosciuto alle prime armi”, suo figlio, l’“onore ricevuto”: il mio nome stampato vicino a quello ben più prestigioso e importante dell’opinionista di punta del quotidiano romano.

Una “enorme apertura di credito”, secondo il mio genitore, per restare al mio posto, serbando eterna gratitudine. Presi tuttavia una decisione non condivisa in famiglia, quando i notiziari della tv imperversavano con una concorrenza spietata che, in poco tempo, mise ko i giornali del pomeriggio. E il passaggio da un giornale della sera in declino a uno del mattino in forte crescita, si rivelò una scelta indovinata. A Roma nella sede de “Il Tempo” di Renato Angiolillo, in Piazza Colonna, trovai una grande scuola. Con tanti illustri maestri e bravissimi amici di redazione, a cominciare da Gianni Letta, Mino D’Amato, Antonio Altomonte, Bruno Vespa e tanti altri.

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