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DAVOS : UNA RIUNIONE DI VOLPI

Economia & Finanza / 94

                           DAVOS : UNA RIUNIONE DI VOLPI

di Mario Travaglini

 

Davos è una cittadina delle Alpi svizzere, nel Cantone dei Grigioni, famosa nell’ottocento per ospitare nosocomi di un certo livello dove i benestanti dell’epoca chiedevano di essere ricoverati per curare le loro malattie. Proprio qui Thomas Mann, durante uno dei suoi soggiorni per assistere la moglie ospedalizzata, scrisse il celebre romanzo La montagna incantata. Oggi è  molto nota come località sciistica ma anche perché ospita il Meeting annuale del World Economic Forum (WEF), un’organizzazione apparentemente senza scopo di lucro ( noprofit ) svizzera, che comprende le èlites mondiali della politica e della imprenditoria. I delegati, tutti rigorosamente invitati, includono leader politici, dirigenti delle principali compagnie internazionali, compresi gli hedge fund, le banche, la tecnologia e le grandi case farmaceutiche, ma anche studiosi delle più varie discipline, anche non economiche. Ogni anno si affronta un argomento diverso; l’edizione di quest’anno è stata dedicata alla “cooperazione in un mondo frammentato”, ovvero, letta in modo più terra terra : “cosa dobbiamo fare per cambiare sistema e continuare a fare profitti? “ .                                      L’atmosfera è stata apparentemente depressa. Due terzi degli economisti che hanno preso la parola o intervistati dai media hanno ritenuto che ci sarà probabilmente una recessione globale nel 2023; tra di essi uno su cinque ha affermato che è estremamente probabile che si verifichi. Anche i leader aziendali sono preoccupati: il 73% dei CEO di tutto il mondo ha dichiarato  che la crescita economica globale diminuirà nei prossimi 12 mesi; una previsione ancora più pessimistica di quella formulata nello stesso luogo appena 12 anni fa. Il mondo è in crisi, come negli anni ’30, cerca nuove direzioni per resistere e preservare l’ordine sociale ed economico. Naturalmente anche se non se ne parla in televisione o sulle pagine del Corriere della Sera e di Repubblica resta il fatto che le èlites sono ossessionate dalla certezza della crisi. Sanno che il quadro attuale non è più sostenibile. La crisi del costo della vita è classificata come il rischio globale più grave nei prossimi due anni, con un picco nel breve termine. La perdita di biodiversità e il collasso dell’ecosistema sono visti come uno dei rischi globali in più rapida crescita nel prossimo decennio e i sei  rischi legati all’ambiente sono ritenuti i più probabili e classificati tra i primi dieci. I rischi aumenterebbero in maniera esponenziale qualora la frammentazione economica globale e le tensioni geopolitiche dovessero proseguire nella loro espansione, contribuendo ad accelerare un diffuso sovra-indebitamento nei prossimi 10 anni, a cui contribuiranno anche le crisi alimentari, energetiche e dei costi delle materie prime. Insomma a Davos hanno capito che la società è divenuta troppo vulnerabile e sempre meno resiliente e che il rischio di una policrisi, teoria cara allo storico inglese Adam Tooze, sarà sempre più probabile.

A questo punto le volpi si sono interrogate: che ne facciamo del nostro capitalismo? E, posto che quello finanziario deve rimanere, visto che finanzia il WEF e paga i suoi pensatori, come possiamo modificarlo per continuare a fare profitti? La risposta l’ha data, forse a sua insaputa, Klaus Schwab, fondatore del forum, spiegando che :”…..abbiamo la scelta tra tre modelli. Il primo è il “capitalismo azionario”, abbracciato dalla maggior parte delle corporazioni occidentali, secondo il quale l’obiettivo principale di un’impresa dovrebbe essere quello di massimizzare i propri profitti. Il secondo modello è il “capitalismo di stato”, che affida al governo la direzione dell’economia, e che ha guadagnato importanza in molti mercati emergenti, in particolare in Cina. Ma, rispetto a queste due opzioni, la terza deve essere raccomandata, e cioè il “capitalismo degli stakeholder, ossia quello che posiziona le aziende private come amministratori fiduciari della società”. Secondo questo principio, le grandi imprese private dovrebbero “amministrare” la società nel suo complesso e porsi come forza principale nella risoluzione delle sfide sociali e ambientali di oggi che avanzano a ritmo sempre crescente. Sostituirebbe il “capitalismo degli azionisti” non più sostenibile perché bruciato dalla troppa enfasi data ai profitti. Occorrerebbe un capitalismo più sobrio, meno appariscente dove l’accento non è più posto sui profitti, ma dove la ricerca del profitto rimane il motore dell’economia. E’, in sostanza, la famosa Terza Via, la declinazione del “né a destra né a sinistra”, la fine della lotta di classe, la fine della storia o degli antagonismi  che magicamente scompaiono. Le grandi imprese, lavorando con governi e organizzazioni multilaterali, possono, con una delega non scritta dalla politica, sviluppare il “capitalismo degli stakeholder”, che, secondo il fondatore del Forum senza scopo di lucro Schwab, può “avvicinare il mondo al raggiungimento di obiettivi comuni”. Ecco, è semplice! Bastava pensarci. Per risolvere tutti i problemi, per uscire dalla policrisi incipiente è sufficiente togliere il potere – o almeno quello che resta – alle masse, ai popoli, agli elettori, e affidarlo alle società private che con la benedizione degli Stati faranno il bello ed il cattivo tempo.

Leggendo il resoconto di quanto partorito dal  WEF, mi ritrovo a pensare che questo Forum dopo aver raggiunto il suo massimo, il suo apice,  è passato dall’altra parte, sul pendio del declino. Fino a qualche tempo fa poteva corrispondere ad una fase della globalizzazione, a un aumento della tecnologia, all’emergere di nuove fortune globali, a uno stato del mondo che oggi, dopo la guerra in Ucraina, mi pare superato. Non è più adatto, è diventato banale, ha già un odore rancido. Forse anche pericoloso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nei prossimi mesi l’istituto di Francoforte potrebbe cadere nella tentazione di calcare la mano se, come prevedibile, le strette non daranno gli affetti sperati. Il rischio è duplice: azzoppare del tutto una ripresa già claudicante, trascinando l’eurozona in stagflazione (una miscela indigesta fatta di alta inflazione e stagnazione economica); far esplodere gli spread di quei Paesi, come l’Italia, più fragili ed esposti ai venti della speculazione per l’elevato indebitamento.

 

 

 

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