HomeCulturaartiSOPRAVVISSUTI – GINO FROGHERI, ROBERTO PUZZU AL MAC LULA

SOPRAVVISSUTI – GINO FROGHERI, ROBERTO PUZZU AL MAC LULA

Il MAC LUlA, una importante struttura museale con sede nel centro Sardegna, ospita la doppia personale degli artisti Gino Frogheri e Roberto Puzzu che si inaugura l’8 dicembre 2022.

La filosofia operativa dei due artisti che difficilmente possono essere collocati , tout court, nei vari movimenti che in tutti questi anni ha fatto da cornice alla definizione di “contemporaneità”, da sempre impegnati alla ricerca di linguaggi e metodologie funzionali al racconto della loro personale poetica, hanno  fatto riferimento a quell’assunto dell’Estetica che afferma che in Arte, a differenza di tutte le altre categorie del sapere, non esiste  “progresso” ma “Altro”. 

Questo Altro ha determinato, per i due pittori, una ricerca che abbraccia quasi per intero la loro vita e, per ognuno , una personale identità declinata dentro una produzione ricca di incursioni che hanno indagato  non cronologicamente nella storia dell’arte, liberi, nel loro operare, di una rilettura critica dei linguaggi o di una loro nuova proposizione. 

Il contesto  dentro il quale si muovono è frutto dell’ assoluta convinzione che l’opera d’arte , se è tale, vive fuori dal tempo, sopratutto da quello nel quale è stata  prodotta. Gli artisti sono quindi dei SOPRAVVISSUTI ad una banale omologazione del loro lavoro dentro quell’enorme calderone di contenimento dell’arte contemporanea. 

Il testo che segue è il testo di presentazione della mostra a cura del critico e storico dell’arte Mariolina Cosseddu che volentieri ospitiamo nella nostra rubrica settimanale. ( R.P.)

                                                                                   

SOPRAVVISSUTI

Il titolo della mostra va utilizzato con cautela e riportato ad un preciso contesto  per spogliarlo di equivoci e fraintendimenti.

Gino Frogheri e Roberto Puzzu sfruttano l’ alto grado di ironia di cui sono dotati per guardare alla corposa e versatile attività artistica accumulata negli anni da un’angolazione disincantata e allo stesso tempo profondamente consapevole dei percorsi tracciati, delle esperienze vissute, dei debiti contratti e dell’impegno come strumento operativo.  Doti che appartengono a quelle generazioni che hanno attraversato la storia dell’arte isolana da veri protagonisti e ne hanno conosciuto le pieghe più intime e vere. Li unisce dunque una memoria comune, vanto e dannazione per chi, come loro, si trova su una sponda critica a riflettere sul recente passato ma soprattutto a rendere il presente l’approdo sicuro di un’eredità da non disperdere. 

La condizione di SOPRAVVISSUTI diventa così una dichiarazione storica e metodologica. 

Gino Frogheri e Roberto Puzzu appaiono due figure vicine e lontane allo stesso tempo: vicine per destini che si incrociano, per condivisione di una stagione straordinaria della nostra storia artistica, per amicizia cullata negli anni e per quel vizio della memoria che dicevamo non è sterile rimpianto semmai un dovere etico e collettivo. Lontani per età, poetica, mezzi espressivi, visione dell’arte come mezzo che agisce sulla coscienza: più emozionale quella di Frogheri, più fredda e razionale quella di Puzzu.  Senza che nessuna delle due direttrici neghi ovviamente l’altra. Solo una questione di tasso alchemico, di grado delle cose da cui discende la soluzione finale del manufatto artistico.  Accomunarli significa guardare una stessa medaglia nelle due frontalità, come un caducèo dove gli opposti si attraggono e si completano. 

                                                                                                

Il loro incontro avviene alla fine degli anni 60, in quella fucina di fermenti e occasioni inaspettate che è stata la “Chironi 88”, magistralmente diretta da Sandra Piras, figura di donna illuminata e lungimirante, volitiva e audace che ha fatto, di Nuoro e dell’isola stessa, un luogo non periferico delle sorti dell’arte contemporanea in Sardegna. Spazio di incontri, dibattiti, presenze di rilievo la cui ricaduta si sentirà nel tempo a venire mentre lei, Sandrina per tutti, tesse rapporti e legami con le altre situazioni di avanzata ricerca dell’isola, conscia del valore del sistema dialettico e di scambio che occorre costruire se si vuole avere la forza di superare i confini personali per creare una realtà propositiva e  dinamica. Nessuno è riuscito, in seguito,  a raccogliere la sua eredità di intenti. 

 Se è vero allora che la vicenda esauriente e puntualmente documentata (non solo evocata come siamo soliti fare) di quella galleria, della funzione di Sandra  Piras e del clima operativo di quegli anni è ancora da scrivere e consegnare alla storia dell’arte del nostro territorio, è anche vero che dal quel nucleo sono discesi fenomeni e situazioni vitali con cui oggi stiamo facendo i conti.  

La loro nascita comune è dunque lì, dove un giovane Gino Frogheri si emancipa dal dettato figurativo,  su cui tornerà comunque negli anni ma con altre consapevolezze: una tirannide, la  figurazione, perché lo costringe a misurarsi con una dote innata al disegno e alla capacità prensile di catturare l’anima dei suoi soggetti, come succede ai veri talenti che conoscono il mondo in punta di matita. 

Il contesto della Chironi lo sollecita a cercare  altre forme, altri linguaggi, nuovi approdi: la via dell’astrazione che si respirava nella galleria, crogiuolo, dicevamo,  di linguaggi e figure di peso internazionale, lo proietta in una dimensione tutta da svelare e da indagare. Ne deriva un’altra sintassi, che corre parallela alla figurazione, quasi mai senza contaminazioni tra i due registri, come un perfetto teorema di Euclide che prevede l’incontro all’infinito, dove si orienta oggi la sua più recente produzione.  Questa mostra  mette in scena alcuni tra i momenti più significativi della sua ricca  attività. 

                                               

Roberto Puzzu è poco più di un ragazzo, allievo  di un vulcanico Nino Dore (maestro riconosciuto e indimenticabile), che dall’Istituto d’arte di Sassari si avventura nel cuore dell’isola attratto dal fascino di  quel tumulto culturale destinato a segnarlo e orientarlo sempre più audacemente verso forme espressive di continua scoperta. E’ sul piano infatti della  esplorazione di campi operativi sempre inediti, mai limitanti, semmai ciascuno volàno di altri percorsi e altri attraversamenti, che connota la ricerca di Roberto Puzzu, mai pago dei risultati ottenuti, costantemente proiettato nella verifica di nuove realtà che questa mostra rivela.  

La loro frequentazione diventa in breve tempo esperienza di vita e di arte, vortice di orizzonti sempre nuovi e sollecitanti, sostenuti da Sandra Piras che di artisti ne ha visti passare molti, non tutti altrettanto incoraggiati. Non è un caso che saranno entrambi presenti alla ormai mitica mostra del 1984 , “Venticinque anni di ricerca artistica in Sardegna”, curata da Salvatore Naitza e Sandra Piras.  Essere parte di quella storia nuorese è, oggi, per entrambi, un momento di formazione  culturale da  rivendicare con passione e saggia valutazione storica.

Ripartiamo allora dal titolo di questa mostra: Sopravvissuti è di fatto una condizione esistenziale, una presa di posizione e un dato incontrovertibile che implica il riconoscimento, vale la pena ribadirlo, di una stagione dell’arte  troppo facilmente dimenticata. La definizione è dunque provocatoria quanto  giocosa ma, in realtà, trova la sua origine in una serie di lavori degli anni settanta  di  Gino Frogheri.  Adottarla ha senza dubbio un valore programmatico.

Siamo nel 1971 quando Frogheri idea un formula grafica di cui andrà scoprendo nel tempo tutte le sue infinite potenzialità. Nata, come racconta lo stesso artista, in occasione della celebrazione del centenario Deleddiano, come sintesi di un ideale ritratto della scrittrice, perde ben presto il suo intento originario per diventare cifra stilistica della nuova grammatica di geometrica essenzialità .  Consapevole di aver intrapreso una strada divergente rispetto alle esperienze degli anni precedenti Frogheri da quel momento in poi si getta a capofitto nell’ambito dell’astrazione segnica sondandone le possibilità compositive formali e cromatiche e declinandole in modalità sempre personali e fortemente connotate. Si assiste così da una parte alla vita autonoma di un grafema che diventa sigillo magico quanto enigmatico di opere che , nella casistica combinatoria, affermano la creatività inesauribile del suo artefice. Ma, dall’altra, la struttura lineare e armonicamente modulata innesca contemporaneamente un processo semantico in continua evoluzione. In altre parole: quella forma acquista il ruolo di  unità minima di una grammatica espansiva e ritmica che va acquisendo senso man mano che l’artista stesso la pratica nelle sue più variate modulazioni.  Così quel nucleo organico  prolifera quasi per forza propria, come un’impronta generatrice che  allarga e potenzia i suoi confini simbolici, candidandosi a diventare una sorta di autoritratto celato, un monogramma intimo quanto metaforicamente disponibile per significazioni offerte al lettore dell’opera. Come un fraseggio musicale che si espande o si contrae assecondando l’intuito e l’emozione che guida la mano del suo autore. Fino a uscire dai limiti dello spazio pittorico e trasformarsi in una forma scultorea di rara leggerezza tra le superfici specchianti che le fanno corona: qui si riflette moltiplicato il bisogno di infinito, rovello concettuale mai placato.

                                                          

Intanto occorre subito precisare che Frogheri, mentre va scoprendo la seduzione del formalismo astratto, si impegna in una indagine  sperimentale sulla materia cromatica e sulle modalità operative di volta in volta messe in atto. Vale a dire che gli appare chiaro come la ricerca della forma non possa essere disgiunta dall’invenzione tecnica per ottenere le soluzioni percettive cercate. Lasciando aperta la via del caso nella preoccupata sorveglianza del tutto. 

Le composizioni realizzate con tecniche miste sono dunque il frutto di ricerche continue che gli consentono di agire sia sui mezzi materiali che sulle architetture compositive delle opere dei decenni successivi in forme sempre originali e perfettamente riconducibili al suo dettato pittorico. Anche laddove l’esuberanza del colore sembra prorompere animatamente sulle superfici, sono  del tutto leggibili i principi di armonia e equilibrio che governano le dinamiche strutturali.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 In realtà è evidente, a guardare le opere in mostra, come si delinei un percorso cronologicamente esemplare dal punto di vista poetico e concettuale. Se i lavori della fine degli anni sessanta e primi settanta mantengono ancora un’esuberanza segnica e cromatica, quelli degli anni a venire si definiscono più per sottrazione che per accumulo, per levità piuttosto che per fervore segnico. Nonostante non manchino alcuni momenti dove torna imperioso il bisogno espressivo caldo e magmatico ma sempre tenuto a freno dalla capacita di accurato controllo  del rapporto dialettico tra superficie e profondità, tra linee fluide e colore saturo, tra centro e periferia. Il discorso pittorico è in ogni caso serrato, teso, sofferto si direbbe nella dinamica disciplinata con cui organizza le griglie geometriche, dove si riaffaccia spesso, come un fantasma timbrico, quel suggello sentito ormai   come un’autobiografia del possibile. E dove, altrettanto spesso, lascia che siano le superfici cromatiche a esplodere nello spazio atemporale che imbriglia le spirali di un inquieta interiorità. 

Le opere di questi ultimi anni mostrano dunque un artista che seppure trae linfa vitale dalla propria poetica ormai consolidata non rinuncia a variazioni che lasciano intravvedere sviluppi prossimi. Ne sono un esempio “Love” (2015) “Congegno meccanico” (2015), “Senza titolo” (2019): qui la forza centrifuga delle linee direzionali spinge  oltre i limiti del visibile, si proietta concentrica e tesa come corde scattanti verso uno spazio da conquistare al di la della scena pittorica, nella dimensione mentale di un infinito immaginario.    

                                           

 Se Gino Frogheri vive appieno la lezione dei maestri dell’astrazione italiana riconoscendo, in quei linguaggi, una matrice che piega a proprio piacimento e dentro cui si ritaglia un proprio posto, originale e personalissimo, abbiamo sottolineato, che gli consente di vivere sino in fondo la cultura espressiva del Novecento con apporti di vitale importanza, al contrario, Roberto Puzzu taglia i ponti  con quelle radici che ha percorso negli anni  ottanta e novanta per cercare, con il nuovo secolo, terreni impervi e inaspettati. Convinto che in arte non esiste progresso ma “altro” di cui andare costantemente alla ricerca, si avventura nella realtà contemporanea sondando tutte le opportunità che la tecnologia è in grado di offrire nel rapporto con una concezione dell’arte in continuo dinamismo. Dove gli sconfinamenti tra i mezzi e i linguaggi differenti assicurano il divenire senza sosta della funzione dell’arte. D’altra parte si porta dietro un passato di operatore culturale (ha diretto l’Istituto d’arte di Sassari e il Liceo artistico di Tempio di cui è stato tra i fondatori, per citare solo alcuni degli impegni di cui è stato protagonista) che ha radicato in lui la poetica di un’arte come azione,  di un fare che mette alla prova capacità  progettuali e abilità manuale.  Sul ruolo del progetto e sulla forma razionale e misurata ha lungamente lavorato negli anni passati facendo dei campi contigui dell’arte applicata alla gioielleria e ai tessuti un aspetto non marginale della sua prassi quotidiana. Non poteva rimanere insensibile allora al richiamo del digitale e della sperimentazione legata al mondo del  graphic design  per andare alla ricerca dei rapporti tra quei procedimenti e gli ambiti più innovativi della pittura e scultura. Passando ovviamente attraverso l’indagine dei materiali che l’industria di volta in volta immette sul mercato e che lui riesce a piegare ai propri insospettabili fini estetici. Va così delineandosi un universo di forme materiche e oggettuali sorprendenti quanto spiazzanti dove caparbiamente sottolinea il connubio tra astrazione e figurazione senza soluzione di continuo.  Di fatto, fin dai suoi esordi, appare sostenuto dalla convinzione che le categorie vadano trasgredite e le verità assolute inficiate. Per questo non esita a servirsi della fotografia come del  collage, della serigrafia come degli oli, ma connessi su piani e rapporti che di ovvio non trattengono nulla. Una necessità intima di continua sfida con se stesso prima ancora che con i mezzi a disposizione. Come a dire che le inquietudini interiori si placano solo nell’enfasi di una coraggiosa intraprendenza all’agire artistico.

                                                       

 La sua è dunque  una grammatica dettata dalla contingenza dei materiali in gioco che  modella, a loro volta,  su schemi  progettuali  costantemente messi in discussione. Che richiedono, in ogni caso, una procedura lenta e sorvegliata, fatta di prove e ripensamenti, conoscenze intellettuali ed empiriche, abilità consuete e improvvisate. Dove ciò che conta è la metamorfosi della materia, la trasformazione a vista delle sostanze sottomesse dalla sapienza manuale e concettuale e volte sempre, come già in passato, a sondare il rapporto critico tra verità e illusione, tra memoria della materia organica e sua nuova rappresentazione. Soprattutto sembra riflettere sui meccanismi della percezione visiva mentre svuota di peso le sue architetture di trasparente leggerezza.   

Ne discendono manufatti che, come quelli in mostra, ci costringono a riformulare certezze sia sui supporti (rigidezza, malleabilità, trasparenza ad esempio), sia sulle tecniche ( laser, artigianalità, prodotti di ultima generazione come modalità antiche ) che sui soggetti a cui  affida una narrazione misteriosa e seducente. 

Le opere di “Sopravvissuti” sono di fatto grandi pannelli che annullano le differenze tra pittura e scultura, tra plasticità e bidimensionalità, tra artificio e naturalezza, tra passato e presente.  Retabli del nostro tempo si offrono in materiali industriali come il plexiglass, modellati manualmente e assemblati fino a ottenere superfici illusorie di profondità cromatica e luministica. Simili a polittici della tradizione medievale si articolano in più piani e si organizzano nello spazio come forme in movimento pur nella staticità della struttura architettonicamente definita. Qui Roberto Puzzu, più che nei lavori realizzati in stampa digitale e resine su blockout, appare perseguire un ideale della forma che nell’equilibrio compositivo, nella misura elegante del rapporto tra le parti, nella raffinata impaginazione ribadisce la filosofia di un bello senza tempo.  

 Mariolina Cosseddu

Nessun Commento

Inserisci un commento