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VINCENZO MARINI ORAFO IN SASSARI

Da quasi due anni l’orafo Marini ha deciso, in accordo con il Padreterno, di cambiare aria curioso di un mondo migliore. Con Vincenzo c’è stata una collaborazione di oltre cinque anni nata dall’interesse comune per la creazione di gioielli che incorporassero la pietra sarda: pietroline raccolte sulla spiaggia, scisti, graniti, ossidiane, minuscole preziose ametiste, quarzi. Pietre comuni che, interpretate  plasticamente e unite a metalli preziosi, hanno generato oggetti preziosi, frutto di un design sapiente e di una certosina lavorazione manuale: microsculture in foggia di gioiello

Sono stati anni bellissimi nei quali, all’interesse primario per il design del gioiello , si univa quello della ricerca in tutta l’Isola dei minerali da usare. Non meno importante divenne l’interesse per la cucina che, fra serate di ricerca e giornate passate a discutere ed organizzare, si divideva equamente fra pranzi e cene con la predilezione per il parago affogato nella vernaccia e olive, in forno, uno dei piatti migliori del ristorante TRE STELLE. L’ alternativa consisteva di solito in memorabili  zuppe di pesce preparate personalmente da Vincenzo.   Il nostro comune intento e progetto consisteva nella ricerca di una modalità estetica che portasse superamento della produzione dell’artigianato artistico nell’oreficeria tradizionale, mantenendone integre la preziosità e la funzione.

Cominciammo con l’analisi dei gioielli della tradizione smontandone gli elementi e riprogettandoli con abbinamenti diversi e formalmente più vicini alla contemporaneità, provando a non snaturarne la funzione ma elaborandone la foggia in modo differente. Appartengono al quel primo periodo una serie di spille dove l’oro giallo, di un giallo sbiancato e luminosissimo perchè legato con il cadmio, invece che con il solito rame o argento, abbellite con minuscole perle bianche di fiume che le integravano formalmente  facendone risaltare i microgranuli saldati sulla filigrana d’oro. Gli oggetti, pure rivisitati nella forma, ne mantenevano il sapore. Così per la zuppa di pesce nella quale, come già sottolineato, Vincenzo era maestro insuperato e dove, in una cena ricca di dibattito scoprì sostituendolo al debole bianco locale usato per sfumare il pesce,  il VILLA SOLAIS, (un bianco aromatico semisecco prodotto a sud dell’Isola), fattoci conoscere dal nostro carissimo e comune amico, Gianni Murtas, storico e critico d’arte e, nel suo periodo sassarese, quasi sempre presente alle nostre cene. Il risultato della scoperta, complice una bombola di gas esaurita, si tramutò in una indimenticata zuppa al fumo, cotta alla brace di tralci di vite essiccati e squisitamente insaporita dal fumo di quella brace. Vincenzo lo conobbi durante i miei primi anni all’Istituto Statale d’Arte di Sassari, nel quale insegnava dal 1965, scelto e voluto da Mauro Manca per la sua competenza e abilità di filigranista.  Nel frattempo si era unito al sodalizio Angelino Fiori, pittore da sempre interessato alla sperimentazione e allo sviluppo artistico dell’artigianato nel settore dei tessuti ed alla promozione culturale del paese di nascita e residenza, Osilo.

Questa formula a tre, condita da una profonda stima del lavoro di ognuno, ci aveva guadagnato una serie di crediti che originarono una serie di iniziative importanti per il periodo: le mostre per Vincenzo Marini rispettivamente nella galleria PI GRECO di Sassari, nella DUCHAMP a Cagliari, una personale ed una collettiva a tre con Roberto Puzzu ed Angelino Fiori, nella chiesa del Rosario a Osilo. Le mostre fortemente volute e sponsorizzate dall’amministrazione comunale illuminata di Paolo Pinna che, con l’attenzione al territorio che gli era propria, aveva favorito la nostra iniziativa per la creazione di una vera e propria scuola per la lavorazione delle pietre dure in unione con i metalli preziosi della quale si occuparono direttamente per un triennio Angelino Fiori per l’aspetto progettuale e Vincenzo Marini per gli apprendimenti tecnico-laboratoriali.

Come già accennato la passione che ci accomunava era finalizzata all’idea di portare un’evoluzione nel design della nostra oreficeria tradizionale, così anche altri materiali divennero oggetto di ricerca formale e di sperimentazione  nella convinzione che qualsiasi di questi usati ed accoppiati nel modo giusto potesse assurgere alla dignità di gioiello. Divennero così oggetto di esperimento la copra, il plexiglass (ribatezzato scherzosamente da Vincenzo Neolite),prodotti della tessitura. In questo processo ognuno di noi era  interessato  a dar forma funzionale agli interessi di ciascuno: quelli di Vincenzo e Angelino finalizzati alla creazione di gioielli, lo scrivente alla costruzione di un accessorio per l’abito, il bottone, anche impreziosito da metalli e pietre preziose. Terminata questa sperimentazione ognuno ritornò ai propri interessi principali: Vincenzo alla creazione di gioielli, Angelino ed io alla pittura.

Questo patrimonio di sperimentazione e conoscenza formale restò di proprietà di Vincenzo che lo usò con sapienza elaborandolo e facendone  la sua cifra personale: si interessarono alle sue creazioni gli architetti La Pietra e Mangiarotti che apprezzandone la creatività lo spinsero a valorizzarle. La bellezza e l’originalità delle sue creazioni gli aveva fatto avere diverse commissioni importanti, fra le tante quella che ha riguardati l’originale gioiello donato a Lady Diana, allora consorte dell’attuale CarloIII di Inghilterra, durante la loro visita in Sardegna. Instancabile, quasi ossessionato dalla voglia di far conoscere il proprio lavoro, divenne promotore di se stesso attraverso una numerosa serie di conferenze nell’Isola e nel Continente .

Una serie di pubblicazioni importanti e manifestazioni fieristiche e mostre successive gli resero omaggio. Ci piace ricordarlo con un ritratto che ne fece Marco Magnani in occasione di una sua mostra nei Padiglione dell’Artigianato a Sassari: “un orafo che per la novità della ricerca e la smagliante qualità della proposta estetica ci appare oggi un indiscusso protagonista nel campo del gioiello d’arte – non ancora noto quanto meriterebbe, e a livello non solo nazionale…..registra una svolta fondamentale, dettata dall’esigenza di affidare il proprio legame con la Sardegna non più a una rivisitazione e rielaborazione della tradizione orafa locale, bensì ad un’indagine sull’utilizzo delle pietre tipiche del tessuto geologico isolano; pietre non preziose, come la fluorite, il calcedonio, l’ossidiana, e perfino l’umilissimo granito, che divengono nelle mani dell’orafo ornamento di estrema raffinatezza. Le otto vetrine della mostra ci condicono di sorpresa in sorpresa: si passa dalla rigorosa plasticità dei gioielli in ossidiana realizzati verso il 1980 (neri, casti, essenziali nel loro rigore) alla trasparenza morbida ed ambrata dei monili in fluorite e calcedonio di qualche anno dopo, ravvivati da sinuosi intrecci di filo d’oro che graduano accortamente le vibrazioni della luce; alla fase più << costruttiva >>inaugurata qualche anno fa, che accoppia spirito ludico e ferma sapienza progettuale con risultati assolutamente inediti. È quest’ultima fase quella che a nostro avviso registra le punte più alte, approfondendo una riflessione sul gioiello contemporaneo già iniziata nel periodo precedente: come nota Altea nella sua presentazione i pezzi di Marini non solo si allineano alla parte migliore della gioielleria d’avanguardia contemporanea per il loro rifiuto (evidente nella scelta di pietre << povere >>) di presentarsi come meri simboli di status e di ricchezza, ma si pongono in stretto rapporto col corpo, sottolineandone la gestualità e la tensione comunicativa. Di qui l’importanza accordata dall’orafo a dettagli che potrebbero sembrare secondari, come ganci, attacchi e chiusure: che, invece di essere – come avviene nella maggior parte della banale gioielleria corrente – accessori indispensabili ma sentiti come estranei al disegno dell’oggetto, divengono parte integrante del progetto complessivo e coerenti con esso. Sono infatti le parti che connettono il gioiello al corpo e come tali vanno evidenziate. Nascono così straordinari orecchini (per l’esattezza, mono – orecchini) che si proiettano fuori dal lobo come spirali o lo trapassano come frecce, che si fissano intorno al padiglione, che si allungano sulla guancia; anelli che vanno ben oltre la lunghezza di una falange; spille che esibiscono l’ago di chiusura invece di occultarlo. Una vivacissima segnaletica – nota ancora Altea – che commenta e talvolta ironicamente stravolta quella trasmessa dal corpo; una segnaletica che si esprime anche attraverso il suono e il movimento, con l’oscillare, il frusciare, il vibrare, il tintinnare delle pietre e del metallo.Gioielli arditi, ma – lasciatevelo dire – straordinariamente seduttivi , e non solo per bellezza formale, ma anche per il modo suadente – a volte perfino un po’ perverso – con cui il dialogano con l’epidermide. Nel loro calibrato mèlange di equilibrio formale ed ironia, razionalità progettuale e caratterizzazione etnica, povertà e raffinatezza, i gioielli di Marini sembrano rispecchiare la complessità e la ricchezza della scena artistica contemporanea. Contro la volgarità del lusso ostentato, del rampantismo imbrillantato dell’altro ieri, il fascino del gusto e della cultura”. 

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