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NUOVA OGGETTIVITA’ AL CENTRE POMPIDOU

Un fine settimana a Parigi con visita obbligatoria al Centre Pompidou dove fra le tante ci siamo soffermati sulla mostra “Nuova Oggettività” allestita nella galleria 1.

La mostra racconta in maniera esaustiva la realtà della Germania fra le due guerre, naturalmente con gli occhi dell’arte, dove la manifesta esigenza di autonomia inizialmente prende corpo in un nuovo stile figurativo distaccato, realista, cui viene dato il nome di Neue Sachlichkeit, Nuova oggettività, dallo storico dell’arte Gustav Friedrich Hartlaub che, nel 1925 alla Kunsthalle di Mannheim, di cui era direttore, ne sancisce la nascita come movimento, con una mostra dirompente che, sotto la medesima definizione, dalla pittura a tutte la creatività artistica della Germania di Weimar si ricongiungono e si confrontano in un unico contenitore di “sobrietà, razionalità, standardizzazione e funzionalismo”. Tutto ciò funziona sino al 1933 quando la nuova società nazionalsocialista avvia il suo processo di “restaurazione culturale” che, dopo la rimozione di Hartlaub dal Kunsthalle, con la mostra Quadri del bolscevismo culturale culmina quattro anni dopo, nel 1937, a Monaco nella mostra Entartete Kunst, Arte degenerata, con il ripudio e cancellazione totale di Nuova oggettività e con essa di tutto il movimento che ne era stato il protagonista. 

   

Il percorso tracciato dai curatori della mostra indica una via che, con gradualità, racconta la veloce trasformazione della società germanica fra le due guerre ed il suo crollo finale, con la sconfitta del Nazismo, presentata nella sua peculiare specificità identitaria, culturale e nazionale, con la quasi esclusione dalla mostra di materiali della contemporanea cultura europea  e della predominanza, quasi totale, di materiali tedeschi.

L’evidenziazione di come ogni manifestazione creativa, dalla  pittura al cinema e teatro, al design, alla fotografia, all’architettura e alla grafica convergessero in metodi e principi ispirati al progresso nella Germania del dopo la prima guerra mondiale che, nonostante le terribili condizioni impostele dalla resa firmata a Versailles, era in atto grazie alla frenetica innovazione tecnologica e alla ricerca scientifica applicata. La mostra è funzionale al racconto della costruzione di un periodo storico che è la fotografia della sua contraddittoria modernità sociale convivente con le laceranti differenze di classe progressivamente marcate nella Repubblica di Weimar.

La fotografia di August Sander è come un catalogo dal quale si attinge la figurazione di varia umanità pietrificata, immobile nelle inquadrature sempre similari, dove si succedono madri e figli, operai, militari, rappresentanti della classe dirigente, tutte definite nella loro  classe sociale: ritratti imprescindibili per la comprensione della ambiguità e complessità sociale , fra la fine della prima guerra mondiale e l’avvento del Nazismo. Premonitrice la foto di Sander, “Ritratto di Anton Räderscheidt” del 1926 della “Serie dei pittori”, la cui “oggettività”, nella sua palese immobilità, lo accomuna ad una tela di Magritte, ma è soprattutto la raggelante prefigurazione del “vuoto” delle città tedesche che negli anni immediatamente successivi si svuoteranno, solitaria, immobile si staglia la figura del pittore.

 

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