La recente pubblicazione di “Quegli ultimi rumori” di Philippe Jaccottet, curata con maestria da Albino Crovetto e Ida Merello, ci offre un’opportunità preziosa di immergerci nella poesia umile e deferente di questo compianto poeta. Jean Starobinski aveva giustamente evidenziato la povertà istintuale dell’io lirico di Jaccottet, ma in questo lavoro, ci troviamo “nell’insidia della soglia,” come direbbe Yves Bonnefoy, un altro grande autore francese, e sembra che ogni tentativo di soverchieria soggettuale sia stato definitivamente scongiurato.
Jaccottet ci conduce attraverso un viaggio poetico che va oltre l’ego, svelando il valore dell’oblio e della trasparenza nella vita. Egli ci ricorda che l’attaccamento a sé stessi oscura la percezione della realtà, ma un momento di oblio sincero può rendere ogni schermo della nostra mente trasparente, rivelando una chiarezza che si estende fino alle profondità più remote, liberandoci dal peso delle preoccupazioni quotidiane. È come se l’anima stessa si trasformasse in un uccello, libera di volare al di là dei confini della sua esistenza.
Le parole di Jaccottet sono come ali che ci sollevano sopra le costrizioni mentali e ci permettono di vedere la vita con una chiarezza profonda. E non è un caso che queste parole siano scritte in prosa, seguendo l’insegnamento di Baudelaire in “Mon coeur mis à nu.” Questo stile prosaico conferisce alle parole di Jaccottet un potere diretto ed evocativo, rendendo la sua poesia ancora più accessibile e coinvolgente per il lettore.
(R.P)
Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Interno
Cerco da tempo di vivere qui,
in questa stanza che fingo d’amare,
tavolo, oggetti quieti, la finestra
che in fondo ad ogni notte apre altri verdi,
e il cuore del merlo che batte nell’edera scura,
punti di luce sulle macchie d’ombra.
Anch’io cerco di dirmi: «L’aria è dolce,
sono a casa, la giornata sarà buona».
C’è solo, in fondo al letto, questo ragno
(si sa, è il giardino), che non ho abbastanza
ucciso, sembra stia tessendo ancora
la trappola al mio fragile fantasma…
***
Di notte, nella città dove vivo in immagine,
la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini,
in cui vanno i fantasmi, come portando altrove
quel lieve vapore che sale dal fondo del cuore.
Eppure insisto, per quanto sia incapace il solitario,
e osservo le figure della luce. E se poi fosse
appunto per la pietra che vacilla, o perché il vento
di fronte ai bar impazza come un cane, o perché squassa
foglie, finestre malchiuse, che finalmente
stavo per incrociarvi, distrutta la forza,
estrema fragilità sempre sfuggente: e se poi avessi
acciuffato il vostro mantello di cuoio… Ora sapendo
che i muri più alti non sono che leghe di polvere,
che chiasso e arditi specchi dei caffè improvvisamente
s’incrinano ai primi suoni del mattino, e che salendo
ai belvedere di periferia la città appare
povero mucchio di braci fumanti,
più non accoglierò queste figure terrificanti,
e ancora camminerò, benché sia inverno, e gli ultimi
ricordi di ieri il fiume abbia travolto…
Vivrò meno tremante in queste fortezze di sabbia,
poiché desidero solo una cosa che sfugge, vaga,
questa parola detta in un soffio alla bocca in attesa,
sull’astro degli occhi brucianti questo passaggio di nebbia.
L’ignorante
Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano: cosa resta? cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»
Testi selezionati da Il barbagianni. L’ignorante (trad. di F. Pusterla, Einaudi, 1992)