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Se gli Hulligàns imparassero la Haka….

Editoriale / 99

Se gli Hooligans/Ulligàn imparassero la Haka….

di Pierluigi Palmieri

Uligàn o Hooligans,  per me pari sono. Potrebbe essere il commento più adatto all’episodio più antisportivo della settimana: lo scontro tra bande di scalmanati che hanno trasformato le strade e le piazze del centro   della “Città del sole” per antonomasia in un’inguardabile accozzaglia  si suppellettili e di macchine bruciate dopo aver travolto tavoli sedie di bar e ristoranti e perfino le tradizionali “bancarelle”  che gli ambulanti , come ogni mattina allestiscono con la minuziosità che li caratterizza.

Lo spunto per la disgustosa guerriglia lo ha fornito l’incontro di Calcio  tra le squadre dell’Eintracht di Francoforte e del Napoli decisivo per il passaggio ai quarti di finale della prestigiosa Champion League. Gli Hooligans tedeschi e gli Uligàn partenopei ( con l’elisione della “H” e l’accento sulla “à” per rispettare la metrica e la pronuncia in “lingua” napoletana) si sono dati praticamente appuntamento a Piazza del Gesù per dare vita al primo round della “sfida” per l’accesso  ai quarti di finale della Coppa  europea. L’imponente scudo dei poliziotti in assetto anti sommossa. ha impedito lo scontro tra gli esaltati ma non la  devastazione da parte delle centinaia di pseudo tifosi distinti tra loro solo per i colori delle sciarpe e dei fazzoletti rosso-bianco-neri  degli Hooligans o azzurri degli Uligàn, ma accomunati da un’inaudita violenza.

Fabrizio Ravaglioli in un testo inimitabile* definisce la “violenza” come la più complessa da analizzare tra le malformazioni dello Sport (1990).  A suo parere per capire la convergenza delle forme di violenza nelle attività sportive è probabile che, oltre alle discipline storiche, si debbano adottare diversi approcci disciplinari come sociologia, psicologia, etologiae scienze di confine come la sociobiologia e per dare un nome a questa ricerca molteplice il sapere intorno alla violenza sportiva, e più in generale intorno allo sport, può essere considerato una filosofia. E si, Filosofia dello Sport è il titolo del suo libro, di cui ho avuto l’onore di curare la seconda edizione nel 2013, dove nella post-fazione provai a proporre in linea con le considerazioni del Maestro alcuni “antitodi” a questa malattia che sembra essere stampata nel DNA di alcune categorie di persone che ruotano intorno allo sport. Uno di questi lo proporrò tra breve a conclusione di questo editoriale. Prima però accenno alla “diagnosi” di Ravaglioli, con E.Dunning, che aveva pubblicato l’anno precedente “Sport e aggressività”. Ilfattore dominante delle determinanti sociali della violenza sportiva, o più limitatamente calcistica è la periferia delle grandi città:“si tratta dei luoghi dell’inurbamento di ceti svantaggiati. Periferia, borgata, da qui partono di solito i teppisti dello stadio” – sostiene  Dunning- “se il processo di civilizzazione è caratterizzato dall’autocontrollo delle pulsioni e dalla neutralizzazione della funzionalità del comportamento aggressivo, la socializzazione delle periferie urbane, industriali, certo non favorisce le qualità che servono alla integrazione negli standard di comportamento tipici di una società altamente civilizzata “ . Ecco allora spiegata l’origine e il comportamento degli Hooligans/Uligàn, ma il Nostro però sottilmente ricorda che all’interno dello Stadio “quando la finzione, il gioco, porta all’esasperazione l’eccitamento, il diaframma cede. Il gioco fagocita l’intera realtà. Lo stadio esplode. Lo scontro simulato o ritualizzato  si trasforma in rissa effettiva. Allora saltano anche i recinti sociali” e aggiunge simpaticamente che anche “Il buon bottegaio, proprietario di diversi appartamenti, amabile intrattenitore di domestiche e signore, uomo assestato, pacifico, come tale noto a tutto il quartiere, può all’improvviso saltare come una molla perché un rigore è stato negato”.

Mi propongo di approfondire in altri editoriali questo argomento e concludo questo con una proposta ch può apparire estemporanea: invia sperimentale propongo agli organi competenti, sportivi e politici di introdurre corsi obbligatori teorici e pratici di Haka** la danza dei Maori fatta conoscere a tutto il mondo dagli All Blacks, gli imbattibili rugbisti della Nuova Zelanda, che, con la sua marcata espressività aggressiva si è consolidata ormai nella mente dei veri sportivi come danza della pace e dell’accoglienza. In completa tenuta nera, la interpretano in maniera sentita e spettacolare davanti a decine di migliaia di spettatori e agli avversari  ammutoliti e “rispettosi.

Lo dimostra la foto qui sopra che ritrae i giganti della nazionale Inglese che replicano  con il solo sguardo alle “minacce” dell’Haka  neo zelandese,  Come dire  rispetto le tue origini e le tue tradizioni, ma lasciamo parlare il campo di …GIOCO. Spero di fare cosa gradita ai lettori riportando in fondo a questo articolo, nella nota a pié  pagina un estratto della descrizione della danza dei Maori fatta da  E. Canetti che ho-  trascritto nella sua interezza nel mio Discorso sul corpo.

*   * F. Ravaglioli, FILOSOFIA DELLO SPORT, Armando, Roma 1990

  • ** L’Haka dei Maori della Nuova Zelanda originariamente era una danza di guerra.I Maori si disponevano in lunga fila per quattro. La danza, chiamata Haka, doveva riempire di terrore e di angoscia chi la vedeva per la prima volta. Tutta la comunità, uomini e donne, liberi e schiavi erano mescolati fra loro, senza considerazione per il loro rango sociale. Gli uomini erano completamente nudi; si erano solo appesi al corpo la cartuccera. Tutti erano armati di fucili o di baionette che avevano fissato a bastoni o a fusti di lancia. Le donne giovani, compresa la moglie del capo, partecipavano alla danza con la parte superiore del corpo nuda…..

     L’agilità dei danzatori era impressionante. D’improvviso saltavano in alto perpendicolarmente, tutti insieme, come se fossero animati da una sola volontà. Nello stesso tempo agitavano le armi e contraevano i volti: i lunghi capelli di molti di essi, uomini e donne, li facevano assomigliare a un esercito di Gorgoni. Ricadendo a terra, battevano rumorosamente i piedi al suolo, tutti insieme. Questi salti in alto si ripetevano spesso e sempre più in fretta…… Gli occhi venivano roteati qua e là – a volte se ne vedeva solo il bianco -, e sembrava che da un istante all’altro dovessero cadere dalle orbite. Dilatavano la bocca da un orecchio all’altro. Tutti insieme tiravano fuori la lingua come un europeo non sarebbe mai riuscito a fare: ne erano capaci, grazie al lungo esercizio precedente. I loro volti presentavano un aspetto terrifico; era un sollievo distoglierne gli occhi.Il frastuono del canto era assordante: più di trecentocinquanta persone partecipavano alla danza.

    Presto tutte le dita dei piedi, tutti gli occhi, si fanno uguali nella stessa azione. Gli uomini in ogni più piccola loro parte sono presi da questa eguaglianza, che sempre manifestano in un’azione dalla crescita violenta. Lo spettacolo di trecentocinquanta uomini che saltano in alto insieme, che insieme sporgono la lingua, insieme roteano gli occhi, deve dar l’impressione di un’insuperabile unità. La concentrazione non è soltanto delle persone, ma anche delle loro membra separate……

    Tutto accade in base alla supposizione che sia visibile: il nemico guarda. L’intensità della minaccia comune costituisce la Haka…..viene presentata in ogni possibile occasione. A molti viaggiatori è stato dato il benvenuto con una Haka. Dobbiamo la nostra documentazione a un’occasione simile. Se un gruppo amico si unisce ad un altro, ambedue si salutano con una Haka; e la cosa è presa tanto sul serio che uno spettatore ignaro teme che possa scoppiare una battaglia da un momento all’altro. …………. In questa danza, cui tutti possono partecipare, la tribù si sente massa. I Maori se ne servono ogniqualvolta sentono il bisogno di essere massa e di sembrare tale dinanzi ad altri. Nella perfezione ritmica che ha raggiunto, la Haka adempie con sicurezza al suo scopo. Grazie alla Haka, l’unità della massa non è mai minacciata seriamente dall’interno (Cfr. E. Canetti, Massa e Potere, Adelphi, 1981, pagg. 39-41).

da  P,L, Palmieri,Discorso sul corpo Lo Sport tra mito e didattica, Anicia, Roma, 2006,Cap. V, nota 400

 

 

 

 

 

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