Il suo nome di battesimo è Francesco, un nome, non a caso scelto dal Santo Padre, che evoca generosità altruismo e dono, voleva fare l’architetto o l’ingegnere, ma la vocazione per la chirurgia ha preso il sopravvento. Calabrò nel corso della sua trentennale attività ha effettuato oltre 5000 interventi di chirurgia toracica, di cui è stato tra i pionieri in Italia, restituendo alla vita normale persone che vivevano sul filo del rasoio per problemi al cuore e ai polmoni. Solo per questo il nostro va catalogato tra le figure di maggior rilievo della professione medica, ma c’è un particolare che lo caratterizza e lo rende quasi unico: il re dei trapianti vive con il cuore di un donatore. Durante l’intervista in diretta su Rai1 (“Uno Mattina in famiglia” del 25 febbraio 2023) ha spiegato di essere stato costretto a “passare dall’altra parte del tavolo operatorio” per un evento assolutamente imprevisto, precisando che per lui non si sono verificate le medesime condizioni dei pazienti sottoposti alle sue cure, costretti per la maggior parte, a lunghe e stressanti attese, durante le quali, in pressoché totale sedentarietà, crescono ansia e preoccupazione. Ben sapendo che attraverso il trapianto è possibile salvare la vita ha affrontato l’intervento con la dovuta serenità. Ha rivelato però, simpaticamente, di aver avuto anche lui un momento di sbandamento sull’elicottero che lo stava trasportando in ospedale: “sotto anestesia pensavo che stessi guidando il velivolo e che l’anestesista fosse il mio copilota”. Ha aggiunto che la sua passione per la chirurgia gli ha permesso di entrare in empatie con e di sostenerli prima e dopo gli interventi.
Il conduttore aveva aperto l’intervista mandando in onda un filmato di qualche anno che riguarda Bill, l’americano che aveva percorso centinaia di chilometri in bici per sentir battere il cuore di sua figlia morta a vent’anni, trapiantato in un giovane di colore. Davanti alle telecamere che lo avevano ripreso con lo fonendoscopio appoggiato sul petto del ricevente Bill aveva commentato:“Sta lavorando bene”.
Alla domanda se ritenga giusto far incontrare trapiantato e donatore, Francesco Calabrò, il trapiantatore trapiantato, ha dichiarato che “ci sono molte persone che cercano di incontrarsi ma io penso che non sia una situazione favorevole. Magari la famiglia del donatore potrebbe riversare verso di me emozioni non corrisposte e io stesso potrei sentire verso di loro un affetto che potrebbe portarmi problemi psicologici. Ci potrebbe essere anche un aspetto vendicativo, come già successo, quindi ritengo non sia il caso del contatto”. Mi è sembrato di cogliere una non trascurabile contraddizione nella comunicazione del pioniere dei trapianti, che nella stessa intervista ha posto l’empatia a base del suo rapporto con i malati e ha attributo alla generosità dei donatori una superlativa valenza sociale e umana (” donare è un atto d’amore“). Queste non si coniugano con la non affinità emotiva, o addirittura con la vendetta. Se un donatore mentre è in vita si priva di un rene per salvare la vita ad un altro essere umano, è inevitabile che nei due protagonisti sboccino la soddisfazione e la gratitudine, due sentimenti indiscutibilmente positivi che, in termini relazionali, non possono che dare frutti pieni di umanità e di rispetto, Altrettanto dicasi per i parenti dei donatori scomparsi iscritti nell’apposito registro nazionale, tra i quali, come riferito proprio da Calabrò cresce la percentuale di giovani, ma anche per quelli che decidono di donare gli organi di un loro caro, morto accidentalmente. E’ vero che l’atto del donare esclude una contropartita, ma nel caso in questione, proprio per la prerogativa esclusiva degli esseri umani di provare
sentimenti verso l’altro, mantenere l’anonimato di chi ha donato il suo cuore, può significare impedire a questo di battere regolarmente. Non appaia banale il riferimento al titolo del grande libro di Susanna Tamaro : “Va dove ti porta il cuore”, riguardo all’episodio del padre della ventenne donatrice americana, che ha attraversato in bicicletta cost to cost gli Stati Uniti, per abbracciare il ragazzo trapiantato. “Se quest’uomo vive grazie al cuore di mia figlia, io riesco a sentire mia figlia dentro di lui”, aveva commentato Bill. Questa volta in termini di diritti civili riconosciamo agli americani di essere paradossalmente più evoluti rispetto alla “culla della civiltà”. Forse hanno approfondito meglio di noi la riflessione dannunziana “Io ho quel che ho donato”, Onore, comunque, al merito professionale del dottor Francesco Calabrò.
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