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RIFLESSIONI SULL’ARTE CONTEMPORANEA

Nello scorrere pagine che raccontano d’arte nei posti dell’arte, è spontanea la constatazione che le istituzioni medesime non brillino per immaginazione nell’auto intitolarsi. Misteriosi i responsabili della scelta del “nome” con cui identificare gli spazi espositivi, certo è che, banalmente, hanno prolificato e continuano i vari Mac, Maxi, Maxi Max,MArTA,MASP, SEMI, ExMa, ecc… Questo moòtiplicarsi di spazi espositivi, spesso privi di una vera identità, ha generato schiere di artisti ( pochi) e valanghe di pseudo critici e curatori d’arte ( troppi ). Così al proliferare di qualsiasi vaghezza che, all’occorrenza, viene definita arte, imperversano anche le autostrade di scrittura che la definiscono e ne indicano il senso. L’atteggiamento che va di moda è quello di “irrilevanza dell’arte contemporanea”, pensiero preminente, diversamente e personalmente articolato, dalle nuove generazioni di pensatori autori di saggi, anche pregevoli dal punto di vista dell’inventiva e dell’abilità linguistica, che diventano solo esercizi di bella scrittura, quando non ricordano che il fare artistico si esprime attraverso un linguaggio proprio con suoi codici e protocolli che, definiti di volta in volta , sono strumentali all’unico fine di creare nello spettatore “emozione” e, attraverso questa, quel fluido che consente allo stesso di “sentire” l’opera. Questo “sentire” trascende sicuramente dalla data di creazione dell’opera e dall’artista medesimo. L’opera pur creata in un periodo temporale definito può raccogliere, al  proprio interno, situazioni formali anche mutuate da secoli passati che, non per questo,  ne sminuiscono l’attualità, fedele al sempre attuale disposto dell’Estetica che dice del “non progresso dell’arte” rispetto alle altre manifestazioni dell’intelligenza umana,  ma indica in “altro” la sua contemporaneità. Per esempio per Bonito Oliva questo ”altro” significa  “provocazione di stupore”. 

Nell ricerca di senso di “altro” ho trovato estremamente divertente e assolutamente condivisibile il pensiero che Christian Caliandro va manifestando dalle colonne di Art Tribune:

 ”“Leggo una tesi di baccalaureato / sulla caduta dei valori. / Chi cade è stato in alto, il che dovevasi / dimostrare, e chi mai fu così folle? / La vita non sta sopra e non sta sotto, e tanto meno a mezza tacca. Ignora / l’insù e l’ingiù, il pieno e il vuoto, il prima / e il dopo. Del presente non sa un’acca. / Straccia i tuoi fogli, buttali in una fogna / bacalare di nulla e potrai dire / di essere vivo (forse) per un attimo” (Eugenio Montale, La caduta dei valori, in Diario del ’71 e del ’72, Mondadori 2020, p. 364).

In sostanza l’aspetto fondamentale della nuova forma d’arte si qualifica come: indistinzione opera e non-opera; io e mondo; soggetto e oggetto (identificazione); autore e spettatore; figura e sfondo. La piccolezza, l’invisibilità, l’irriconoscibilità delle opere. All’interno di questa espressività del contemporaneo convivono due specie di artisti : “quelli  fighetti amanti dello status quo che detestano tutto quello che se ne allontana, come l’imprevvisto e, appunto, la ribellione” . “In termini di volontà, si è verificato un enorme arretramento a partire dal punk degli anni Settanta. La disponibilità dei mezzi di produzione è sembrata andare di pari passo con una speculare riasserzione del potere spettacolare” (Mark Fisher, Perché k?, “k-punk”, 16 aprile 2005, pubbl. in Scegli le tue armi. Scritti sulla musica / k-punk 3, minimum fax, Roma 2021, p. 25).

Il/la fighetto/a (e quindi anche l’artista fighetto) rimuove completamente l’altro e il contesto – in effetti, rimuove anche l’Altro. Non è interessato a nulla che non faccia già parte, appunto, dei propri interessi contingenti e della propria condizione.  Così, il fighetto farà di tutto per rimanere intruppato, per non pensare mai nulla di autenticamente controverso (neanche per sbaglio, nemmeno in un momento di distrazione e non-sorveglianza) e comunque per non manifestare mai mai mai un qualunque pensiero personale, una qualunque idea che non sia prima passata al vaglio delle personali Autorità di Controllo (e dove stanno? Chi sono? e, naturalmente, chi controlla le Autorità di Controllo, soprattutto oggi, in questo casino generalizzato che è il presente? Mah…).

 

Business is business, la fighetteria è la fighetteria, e la fighetteria non ammette deviazioni né digressioni: le considera imperdonabili eccentricità, segni di debolezza (e sì, l’indicatore più sicuro che, in fondo, sei proprio un povero sfigato).

Il fighetto – e quindi l’artista fighetto – ha la propria carriera a cui badare e da salvaguardare (ma, esattamente: quale carriera?), carriera che – per quanto fumosa e ineffabile ‒ non può essere messa in pericolo da pensate estemporanee e idealismi vari. Un conto sono infatti gli statement, le dichiarazioni a favore dei diritti e dell’ambiente (non costano nulla, e poi: chi non sarebbe d’accordo?); un conto del tutto diverso è “lottare” – le famose “mazzate” culturali e intellettuali di cui parlava Bertram Niessen – che, ancora (occorre dirlo?) dal punto di vista fighetto sono roba da sfigati.

Un fighetto non si sporca le mani. Mai.”

“Il collasso del tempo, il tempo che da un certo punto in poi – gli Anni Settanta – va indietro invece che avanti (Dick, L’Esegesi) è una delle chiavi per comprendere i processi culturali dell’ultimo cinquantennio, la loro struttura e il loro (mal)funzionamento. Questa particolare dimensione temporale – una volta che essa viene interpretata correttamente  e attraversata ‒ è la caratteristica principale per esempio dell’arte sfrangiata’, cioè non-fighetta: un’arte che non tiene conto del tempo lineare, che inverte le direzioni e le dilata, che fa percolare i tempi (passato-presente-futuro; futuro-passato- presente; presente-passato-futuro; ecc. ecc.), l’uno nell’altro, rendendoli in ultima analisi indistinguibili l’uno dall’altro – e, cosa più importante di tutte, rendendo superflua la distinzione stessa.

L’indistinzione dunque non è solo tra opera e vita/realtà, tra figura e sfondo, tra soggetto e oggetto, tra protagonista e contesto, tra autore e spettatore – ma proprio tra tempo principale e tempi secondari. Sempre, dunque, ciò che a prima vista (e da un altro punto di vista, cioè da un altro sistema di valori e di valutazione) appare marginale, non lo è.

Questo aspetto, in fondo, differenzia l’arte nuova rispetto a quella che è ancora presente, fisicamente presente, materialmente presente (cioè, gli oggetti che essa produce appartengono materialmente a questo tempo), ma passata, vecchia, perché appartiene a schemi e valori andati, ormai inservibili. “A un certo punto, in una fase che diventa percepibile soltanto a posteriori, le culture imboccano un binario morto, cessano di rinnovarsi, si ossificano nella Tradizione. Non scompaiono davvero, ma diventano morti viventi che sopravvivono grazie all’antica energia (…) La poesia lirica, il romanzo, l’opera, il jazz hanno fatto tutti il loro tempo: non è vero che queste culture muoiono, perché in realtà sopravvivono, ma con una volontà di potenza ridotta, prive ormai della capacità di contrassegnare un’epoca. Non più decisive o esistenziali, assumono una dimensione storica ed estetica: invece che modi di vivere, diventano scelte stilistiche” (Mark Fisher, op. cit., p. 117).”

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